Il testo è una riflessione sull’esperienza del vivere e dello scrivere in due lingue, portoghese e italiano.
The text is a reflection on the experience of living and writing in two languages, Portuguese and Italian.
Il confine è un limite che unisce e divide nello stesso tempo, è un luogo di tensioni, « in bilico fra difensiva e offensiva » [1], barriera che isola e separa dall’altro, dallo straniero, dal diverso. Contigua al confine, c’è la frontiera, « la soglia attraverso la quale, se si desidera, si può entrare in contatto con l’altro » [2].
Il confine contiene in sé questa ambivalenza, racchiude l’essere entro il perimetro del proprio corpo, della propria identità, del proprio gruppo sociale, ma, allo stesso tempo, è il luogo per eccellenza della scoperta, dove si intersecano tempi e spazi dinamici che si aprono allo sguardo e che rappresentano sfide, terre nuove da esplorare, popoli e costumi ai quali avvicinarsi.
Quando sono stata invitata a partecipare a questo incontro, ho pensato di parlare delle questioni che noi poeti, e in più transnazionali, riusciamo a cogliere, forse meglio o forse solo in modo diverso, in funzione della nostra posizione scomoda, ma anche per un certo senso privilegiata, di vivere al confine di lingue, culture e paesi.
Inizio dicendo che il termine, spesso utilizzato, « letteratura degli immigrati » o « letteratura della migrazione » non è appropriato: o si parla di letteratura tout court o non si parla di letteratura, ma di testimonianze, cronache, biografie, diari. Il termine è anche troppo generalizzante e non distingue esperienze molto diverse fra loro, come può essere quella dell’esiliato, del rifugiato, dell’espatriato o dell’immigrato. Tale distinzione è importante perché da essa dipende la configurazione che certi temi assumono nell’opera di determinati scrittori. Alcuni sono ossessionati dall’esperienza dell’esilio, dalla nostalgia di una patria perduta, altri abbracciano il nuovo paese con passione, altri ancora si mettono in rotta di collisione con il presente, altri abitano un vano inospitale che non è un luogo né un tempo, come se fossero sospesi nel vuoto.
Per quanto mi riguarda, ho costruito tutto un percorso esistenziale e letterario adottando la posizione scomoda, difficile e anche un po’ azzardata di chi elegge la crisi come valore e, quindi, di abitare nel e sul confine. Non so se io abbia cercato consapevolmente questa posizione o mi sia ritrovata in essa, il fatto è che mi sono guardata e ho visto che, da quel luogo disagevole, potevo vedere meglio e, forse, vedere di più.
Non sono rifugiata o esiliata politica, non sono andata in Italia per necessità economica, né vi sono arrivata con il desiderio di stabilirmici per sempre. Sono andata in Italia per amore, perché ammiravo i suoi grandi intellettuali, artisti e poeti italiani. Mi ero appena laureata in Brasile e pensavo che conoscere l’Italia sarebbe stato il coronamento ideale dei miei studi. Per vari motivi, anche familiari, sono rimasta.
Se non vivo la condizione migrante come una perdita o un dolore, almeno fino ad oggi, i confini linguistici e culturali certamente hanno un peso e hanno generato e generano instabilità e attese. Vivo e scrivo in due lingue diverse, il portoghese e l’italiano, cercando di conciliare due culture anch’esse distanti fra loro.
Non vedo il bilinguismo come un processo di dispersione o di frammentazione dell’io, bensì come un viaggio nell’anima. Avevo parti di me stessa alle quali non avevo accesso in portoghese, casseforti che si sono aperte quando ho aggiunto, con la stessa intimità e pregnanza, la conoscenza dell’italiano. Ho seguito sempre il principio di non mescolare le lingue, perché ognuna ha il suo ambito, il suo universo, il suo ritmo. Inoltre, ho scoperto che potevo utilizzarle per partire e tornare da una lingua all’altra e di rendere, così, sempre presente la magia di vedere e di nominare le cose come se fosse la prima volta. Il bambino è poetico perché le parole gli servono per nominare il mondo, egli non si è ancora assuefatto ad esse, le pronunzia con stupore, convinto che nella parola ci sia qualcosa della realtà che egli nomina. I poeti conservano questo stupore, altrimenti non si accorgerebbero della magia che hanno certi vocaboli, anche di uso quotidiano. Ci sono grandissimi poeti, come il brasiliano Manuel Bandeira e l’italiano Giorgio Caproni, che mostrano che anche il registro linguistico più umile o più quotidiano è poetico quando ha in sé una carica di autenticità e di vita. Ogni lingua è una prospettiva sul mondo, ogni lingua nasce in un tempo e in uno spazio per rispondere alle esigenze di chi la parla, di chi l’ha plasmata nei secoli. Le lingue ci abitano e sono abitate da noi.
Quanto alle differenze culturali, sono nata e cresciuta in Brasile, un paese multiculturale, con persone originarie di tanti luoghi, migranti intenti a plasmare una nuova vita e una nuova patria. In tale contesto, la curiosità, l’interesse per l’altro e per il suo modo diverso di vivere e di pensare, di cucinare, di pregare, di piangere o di ridere, è un valore ed è la chiave di ogni rapporto sociale. Il sincretismo è una risorsa e, nonostante i tanti problemi di disparità che ancora ha il Brasile, prevale nella società brasiliana l’idea che il pluralismo, la mescolanza, il meticciato, al contrario di quel che pensano tanti in Italia, producono risultati nuovi e originali.
Penso che tale esperienza abbia senz’altro agevolato il mio inserimento in Italia. Ero curiosa di conoscere questo paese e la sua cultura. Ma la curiosità non può essere a senso unico, l’altro deve essere altrettanto curioso e interessato. Questa è stata la prima e più cocente delusione in Italia. È stata grande quella sensazione di perdita, nei confronti di chi non era minimamente interessato alla mia esperienza di vita, come io ero interessata alla loro, e sicuramente questo ha avuto il suo peso nella decisione di fare il dottorato e diventare docente di letteratura portoghese e brasiliana. Ho appagato così, nell’ambito del lavoro, in cui recupero il rapporto con la mia cultura d’origine, la sensazione di mutilazione provata all’inizio, nello scoprire che l’Italia è, in realtà, un paese chiuso, dove si pensa in generale di avere tanto da dare e da esportare, poco o nulla da apprendere dagli altri.
La crisi italiana deriva, credo, in parte anche da questo atteggiamento. Eppure i momenti più alti della filosofia, arte, letteratura, cinema, scienza, religione, l’Italia li ha raggiunti quando ha capito che bisognava mettersi in discussione, aprirsi ai contributi di altre lingue e culture. Pensiamo all’Umanesimo e al Rinascimento, frutto di un intrecciarsi di idee, modelli, impulsi e stimoli di rinnovamento, coraggio e onestà intellettuale.
Pensare un’identità come qualcosa di monolitico, di rigido e inalterabile è negare la storia italiana, fatta di amalgama e simbiosi culturali, di prestiti e appropriazioni che l’hanno arricchita nei secoli e che l’hanno portata ad assimilare e rielaborare in modo originale quel che di meglio avevano da offrire le civiltà e le culture con cui è entrata in contatto.
L’altro confine che abito è quella della poesia, linguaggio viscerale e radicale che ho scelto, in un tempo e in un mondo che fa tranquillamente a meno di esso. Ho desiderato fare la scrittrice sin da bambina, iniziando con i racconti, molti dei quali sono stati premiati. Il cambiamento di genere è avvenuto nel momento in cui mi sono avvicinata alla densità del linguaggio poetico, molto più idoneo al tipo di ricerca che andavo compiendo, alle tematiche di frontiera che mi sollecitavano. Afferma Lêdo Ivo, uno dei grandi poeti brasiliani: « c’è qualcosa, nell’uomo, dell’uomo e per l’uomo, che solo il poeta ha condizioni di dire » [3].
Che le parole facciamo ammalare e che abbiano il potere di guarire, prima ancora di Freud e Yung, lo avevano intuito i poeti. La poesia è il linguaggio della discesa nell’anima e nel cuore delle cose. Perché è un pensamento capace di sentire, perché è un sentimento pensante, essa è una forma di conoscenza interiore molto profonda, in molti casi alternativa alle categorie razionali del pensiero. I poeti, sostiene Umberto Galimberti, « sono tali perché debordano dai limiti della ragione, e per questo giustamente Heidegger li chiama i più arrischianti » [4].
È arrischiante camminare dentro il dolore e la morte. Eppure la poesia spesso scruta questi territori estremi dell’umano, per desiderio di contenere l’essere in tutte le sue dimensioni e confini, per fame di abitare e debordare questi stessi confini. Il primo e più doloroso confine che sfioriamo è quello della morte. Ho vissuto molto presto questa esperienza e mi ricordo ancora il momento in cui ho capito, da una risposta sibillina di mia madre, cosa fosse la morte. Ho provato in quel momento un dolore che non si è attenuato, come, credo, avvenga per molti di noi. L’idea della morte mi sembrò uno spreco enorme della natura, uno sperpero colossale di energia. Questo territorio estremo del viaggio umano e i suoi correlati, come la solitudine, il dolore, l’incomunicabilità, che ho preso l’abitudine di sondare e di sviscerare, ha sollecitato un tipo di linguaggio altrettanto viscerale.
Nel libro, Se questo è un uomo, Primo Levi scende nell’inferno di un campo di concentramento, espone la lingua e le sue sillabe all’abietto, alla degradazione dell’umano, all’orrore che milioni di uomini hanno attraversato nel cuore dell’Europa. Narrare questa immersione nel male assoluto, l’attraversamento dei limiti del dolore fisico e morale, diventò come sappiamo la ragione della sua vita.
Se Adorno afferma che, dopo Auschwitz, la poesia non è più possibile, Levi dimostra il contrario. Dopo tale esperienza, solo la poesia fu possibile, la poesia come linguaggio capace di comprendere il sentimento di annichilimento totale, di accompagnare una coscienza dentro la notte, di attraversare quella soglia e di permettere il ritorno al mondo degli uomini. Afferma Primo Levi: « Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per scritto, tanto che poco a poco nacque poi un libro: scrivendo trovavo breve pace e mi sentivo ridiventare uomo » [5]. La sua è una parola poética che si condensa con tale intensità che non solo rivela, illumina e riordina il caos disumanizzante, ma salva, reintegra, trascende ed eleva; sfiora il confine dell’innominabile, il mistero della morte, oltre il quale nessun poeta è potuto andare portandosi dietro una lingua umana.
Non so se le mie parola possono guarire gli altri, so che mi aiutano a vivere, perché attraverso le parole vedo meglio e di più, incontro l’altro, e lo accolgo. La mia ultima raccolta, La carne quando è sola coglie dialoghi spezzati, monologhi di chi è solo dinanzi dinnanzi a Dio e al mondo, il corpo nudo esposto al tempo, il movimento della coscienza che si ribella, il desiderio di essere amati e la rabbia del rifiuto.
Ognuno di noi è attraversato da sentimenti contradditori, ognuno di noi – nel suo dentro – ha parole vere e estreme. Bisogna imparare di nuovo a distinguere, nel frastuono, le parole vere. Rivendico le voci, le parole umane autentiche come segno di noi, segno della nostra identità, della nostra attesa, della nostra consapevolezza, della gioia e dolore con cui attraversiamo la vita. Esse dicono di noi, sono l’orma lasciata sulla strada percorsa, esse ci aiutano a vivere e a guarire della ferita di essere fragili e finiti in un universo sconfinato che fa tranquillamente a meno di noi.
Questo testo è stato presentato all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi il 22 maggio 2012.
Bibliografia consultata
Theodor W. ADORNO, Mínima morali - Meditazioni della vita offesa(Minima Moralia: Reflexionen aus dem beschädigten Leben, 1951), trad. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1994.
Giorgio AGAMBEN, O que é o contemporâneo? e outros ensaios, trad. di V. N. Honesko, Chapecó, Argos, 2009.
Luigi ANOLLI, La mente multiculturale, Bari, Editori Laterza e Il Sole 24 Ore, 2009.
Vera Lúcia de OLIVEIRA, La guarigione, Senigallia, La Fenice, 2000.
–, Il denso delle cose, Nardò (Lecce), Besa Editrice, 2007.
–, O músculo amargo do mundo, São Paulo, Editora Escrituras, 2014.
Umberto GALIMBERTI, « Che cos’è la follia », Il Venerdì di Repubblica, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso, 23 luglio 2011, p. 130.
Lêdo IVO, O vento do mar, Rio de Janeiro, Academia Brasileira de Letras e Contra Capa, 2011.
Vera Lúcia de Oliveira, nata a Cândido Mota, in Brasile, attualmente vive e lavora a Perugia, in Italia. È poeta, saggista e docente presso l'Università degli Studi di Perugia, dove insegna Letteratura Portoghese e Brasiliana. Scrive sia in portoghese che in italiano ed è presente in riviste e antologie poetiche pubblicate in Brasile, Italia, Portogallo, Francia, Spagna, Romania, Stati Uniti e Germania. In Italia, fa parte della redazione della rivista Fili d’aquilone.
Tra i principali riconoscimenti ricevuti si ricordano: il Premio Sandro Penna (1988), il Premio Nazionale di Poesia « Senigallia Spiaggia di Velluto » (2000), il Premio di Poesia dell’Accademia Brasiliana di Lettere (2005), il Premio « Popoli in cammino » (2005). È risultata fra i tre finalisti vincitori del Premio Internazionale di Poesia Pasolini (2006) e ha ricevuto a Brasília nel 2006 dal Presidente Luíz Inácio Lula da Silva il Premio Literatura para Todos, promosso dal Ministero dell’Educazione brasiliano, per la raccolta inedita Entre as junturas dos ossos, pubblicata in quello stesso anno in 110 mila esemplari distribuiti nelle scuole del Brasile. Nel 2009 ha ricevuto il « Premio Internazionale di Poesia Alinari », promosso dalla Fondazione Vittorio e Piero Alinari, di Firenze, in collaborazione con la Cattedra « Giuseppe Ungaretti » della Columbia University di New York, per la raccolta inedita La carne quando è sola.
Fra i libri pubblicati: Geografia d’ombra (poesia), Venezia, Fonèma, 1989 ; Poesia, mito e história no Modernismo brasileiro (saggio), São Paulo, Unesp e Edifurb, 2002 ; La guarigione (poesia), Senigallia, La Fenice, 2000 ; A chuva nos ruídos - Antologia Poética, São Paulo, Escrituras, 2004 ; Verrà l’anno (poesia), Santarcangelo di Romagna, Fara, 2005 ; Storie nella storia: Le parabole di Guimarães Rosa (saggio), Lecce, Pensa Multimedia, 2006 ; No coração da boca, São Paulo, Escrituras, 2006 ; Entre as junturas dos ossos (poesia), Brasília, Ministério da Educação, 2006 ; A poesia é um estado de transe (poesia), Portal Editora, São Paulo, 2010¸ La carne quando è sola, SEF, Firenze, 2011 ; O músculo amargo do mundo, São Paulo, Escrituras, 2014.
Oltre a numerosi saggi su poeti contemporanei apparsi in riviste di diversi paesi, ha curato antologie poetiche di Manuel Bandeira, Lêdo Ivo, Carlos Nejar e Nuno Júdice.
mail: veralucia.deoliveira@gmail.com
sito: http://www.veraluciadeoliveira.it
(dal libro Il denso delle cose: antologia poetica, Nardò, Besa Editrice, 2007)
Le traduzioni dal portoghese all’italiano - e viceversa - sono dell’autrice
sou poeta da cidade magra
da cidade que não
caminha
sou dessa planicidade
sou da violência das vidas
poeta da cidade que afunda casas
e pessoas
sou da puta da cidade que só tem
superfície
amanheço todo dia nua e estreita
como uma rua de comércio
sono poeta della città magra
della città che non
cammina
sono di questa piattezza di città
sono della violenza delle vite
poeta della città che affonda case
e persone
sono della puttana di città che solo ha
superficie
mi sveglio ogni giorno nuda e stretta
come una strada commerciale
estou estilhaçada
silêncios saem da boca
mansos
estava desenhando
palavras
perdi o jeito de amanhecer
tenho tantos pedaços
que sou quase infinita
sono frantumata
silenzi escono dalla bocca
tenui
stavo disegnando
parole
ho perso il modo di destarmi
sono in tanti pezzi
da essere quasi infinita
ia subindo a ladeira
os casebres caiados
o vento
eriçando parreiras
o sol
fundo
feroz
o bojo
das coisas
ia grudando
na minha alma ia sulcando
seus regos
ia fincando-se
como as pedras se fincam
no osso mole da terra
salivo per il pendio
le casupole bianche
il vento
che rizzava le pergole
il sole
fondo
feroce
il denso
delle cose
si incollava
alla mia anima scavava
i suoi solchi
si conficcava
come le pietre si ficcano
nell’osso molle della terra
nem todo verbo
há de sangrar
na vértebra
também com anestesia
se há de se ir
dissecá-lo
para que não se perca
a parte dentro do nome
o que se desgruda por último
a margem ao redor do nome
o que perscruta em nossa boca
a ausência do pronome
non tutti i verbi
nella vertebra
sanguineranno
anche con anestesia
potranno essere
sezionati
in modo che non si perda
la parte dentro il nome
ciò che si stacca per ultimo
il margine intorno al nome
ciò che scruta nella bocca
la mancanza del pronome
achava que as coisas dentro dos livros
eram mais verdadeiras do que fora
que as coisas nos livros e as pessoas
estavam no lugar certo e se destoavam
era só para depois retomarem o lugar
exato em que deveriam estar
pensava che le cose dentro i libri
erano più vere che fuori
che le cose nei libri e le persone
erano al posto giusto e se stonavano
era solo per poi ritornare al posto
esatto in cui dovevano stare
lavava o corpo dele com a alma nas mãos
ia tateando a carne fria que tanto amara e
odiara agora nada mais ficara senão
aquela pena nos músculos inertes
que tanto ela vira vibrar e arfar
de prazer e dor
lavava il corpo di lui con l’anima in mano
sfiorava la carne fredda che tanto aveva amata e
odiata ora nulla più era rimasto se non
quella pena nei muscoli inerti
che tanto lei aveva visto vibrare e ansimare
di piacere e dolore
disseram-lhe do pai
quando já estava morto
ele na cidade grande
e o pai penando, não se fazia isso a um
irmão, não se deixava de fora uma pessoa
só porque ela precisou deixar a própria casa
perder-se numa cidade de cão sem ninguém
não se fazia essa maldade a um filho que nunca
mais ia poder dizer pai cheguei voltei pai
gli dissero del padre
quando era già morto
lui nella grande città
e il padre a soffrire, non si fa questo a un
fratello, non si lascia fuori una persona
solo perché ha dovuto lasciare la propria casa
perdersi in una città da cani senza nessuno
non si fa questa cattiveria a un figlio che mai più
avrebbe potuto dire babbo sono arrivato sono tornato babbo
tenho a música dentro ela me habita
quando levanto ela já me espera
quando caminho ela caminha na minha frente
eu sempre estou dançando na minha carne
sempre estou ouvindo um som que a minha alma
sabe que existe apesar da dissonância
da minha vida
ho la musica dentro lei mi abita
quando mi alzo lei già mi aspetta
quando cammino lei mi cammina davanti
io sto sempre danzando nella mia carne
sto sempre sentendo un suono che la mia anima
sa che esiste malgrado la dissonanza
della mia vita
disse-lhe de abrupto
que não queria ser enterrada
naquele lugar
que não era dali
que aquela terra não haveria
de reconhecer a terra
de onde viera
gli disse all’improvviso
che non voleva essere seppellita
in quel posto
che non era di lì
che quella terra non avrebbe
riconosciuto la terra
da dove era venuta
(dal libroLa carne quando è sola, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2011)
Le traduzioni dal portoghese all’italiano - e viceversa - sono dell’autrice
quanto era bello il mare azzurro d’estate il vento
fra i corridoi il bianco nelle case illuminate dal sole
poi ho visto le cose sformarsi e mettersi a soffrire
come se si fossero pentite della loro felicità
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dalla finestra sentiva il rumore del vento
la vita nel ventre pulsava
i rami sul vetro come unghie
appuntite laceravano la luce
convocavano Dio per vedere
la carne quando è sola
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camminare nel buio
incespicando a fatica
non si raggiunge l’uscita
non si fa che girare in cerchio
barcollare sui lembi
della stessa ferita
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dicevi la poesia è un lampo
la vedi ti acceca questo è il bello
e il brutto che la vorresti sempre
che vorresti quella vita vista
non quella che bisogna vivere
in attesa
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è una parola è una luce è una nube
che si apre e vedi Dio o vedi te stessa
e vedi nel buio della terra attraversare
una vena e quella è poi la vena che
bisogna toccare se la scossa
è grossa ci rimetti la pelle se la
scossa è grossa ci rimetti te stessa
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aveva imparato a osservare le rondini
sempre li a partire sempre lì a migrare
poi tornano non le stesse magari altre
della stessa famiglia della stessa specie
si trasmettono l’odore dei luoghi
si trasmettono la dimensione delle cose
la memoria le misure dei pieni e dei vuoti
il ritorno era sempre una ricognizione
come se ognuna dovessi all’altra
la strada da fare e quella già fatta
(dal libro Verrà l’anno, Fara Editore, Santarcangelo di Romagna, 2005)
i cani scappano lontano
hanno paura abbaiano
vogliono fuggire agli scoppi
strappano le catene si perdono
nella notte non sanno che oggi è
solo il primo giorno dell’anno
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ho tolto l’orologio dal polso
per saltare qualche minuto
e poi ritrovarmi avanti e
pensare ma che era quel
pungolo da una parte del
cuore che per sé batteva
con la punta fuori dal tempo?
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la notte era una luce da ogni parte e tutti guardavano
la pioggia di fuochi io dentro avevo un cuscino
ed ero contenta di non dover uscire
e dire che bella tutta questa lucentezza
l’anno nuovo è un sacchetto di dolci
lo apri gusti ogni pralina poi quella
si squaglia ne apri un’altra anche
quella si scioglie nell’attimo
in cui la sveglia segna un’ora
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ci sono momenti in cui cresciamo fuori e ci vedono
ci sono momenti in cui cresciamo dentro e solo
noi vediamo e siamo più grandi di un palazzo
e più grandi di una balena e nessuno dico nessuno
è capace di vedere quanto siamo cresciuti
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prima avevo una casa gialla
aveva bei finestroni che io schiudevo
alla luce e tutto era giallo dalle posate
alle tende dalle finestre alle pentole
poi una casa nera una tutta nera
ed eri felice perché la notte non
la temevi ma io dentro la notte
ero caduta dicevo non ci so stare
non trovo l’entrata né mai sono
capace di ritrovare l’uscita
sognavo una casa sulle spalle
come una lumaca dicevo
le lumachine non si stancheranno?
ma poi pensavo vuoi mettere
la comodità di partire
con dentro il corpo le pareti
per avvolgerlo?
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attorno al fuoco invitavo parole
chiamavo le cose ad accompagnarle
nel viaggio ignoto ma tu dicevi
ci metti troppi percorsi dentro
come si può stare in una storia
aperta a tutte le direzioni?
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se amava era con dolore
perché diceva debbo lavorare
come una bestia e poi sempre
stare a correre dietro l’oro
di un fagiolo dico non basta
essere nato povero dovrei
anche morire povero?
per certi bordi cammino mamma
ma guardo bene non ti inquietare
so stare attenta e quasi scivolo
ma poi ritrovo l’equilibrio
se non dovessi più farcela
prometto che ti richiamo
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bene diceva bambini miei ora vi amo
sempre ho amato nel buio dell’amore
(perché l’amore ha un buio)
e poi dentro quel dentro ho sentito
una fitta non so dove e poi
pensavo tanto li amo questo
mi può bastare
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c’è una goccia in cucina
che misura i secondi
neanche uno va via
senza che lei lo conti
c’era un vento leggero
lo sentivo sul tetto
sfregarsi alle tegole
strusciarsi pare
avesse preso gusto
ad annusarle
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dopo che era passato
provava la spossatezza
diceva cosa avrò mai fatto
di così pesante sembra
abbia attraversato
l’intero millennio
anziché l’istante
1 - Luigi ANOLLI, La mente multiculturale, Bari, Editori Laterza e Il Sole 24 Ore, 2009, p. 130.
2 - Luigi ANOLLI, op. cit., p. 167.
3 - Lêdo IVO, O vento do mar, Rio de Janeiro, Academia Brasileira de Letras e Contra Capa, 2011, p. XII-XIII.
4 - Umberto GALIMBERTI, « Che cos’è la follia », in Il Venerdì di Repubblica, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso, 23 luglio 2011, p. 130.
5 - Primo LEVI, Se questo è un uomo, in Opere, volume I, Torino, Einaudi, 1987, p. XLV.