Letture in Augusta
Rassegna di poeti in Umbria

 

Presentazione di Vera Lúcia de Oliveira (Maccherani)

fatta da Antonella Giacon

il 17/01/2007 presso la

Biblioteca Comunale Augusta di Perugia

nell’ambito dell'iniziativa

"Letture in Augusta

Rassegna di poeti in Umbria"

(dal 07/11/2006 al 09/05/2007)

Associazione Culturale «Il Merendacolo»

e Teatro Stabile «Fontemaggiore»

"Capim" - Zizi Possi, 2001

"Letture in Augusta
Rassegna di poeti in Umbria"
Biblioteca Comunale Augusta
Perugia, 2006/2007

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[letture da "Tempo de doer" e "Uccelli convulsi"]

Proprio perché questa presentazione ha una qualità speciale, non molto comune alle presentazioni, che è quella di essere stata costruita non su Vera, ma insieme a lei, attraverso una catena continua e costante di comunicazioni e dialoghi, riflessioni che ci hanno impegnato non solo in questo ultimo periodo, ma hanno attraversato diversi anni della nostra vita, è mio desiderio riportare brevemente le considerazioni, mai disgiunte dall'emozione, di chi ha avuto il privilegio di essere una delle sue prime lettrici e al tempo stesso di trasmettere quanto lei mi ha raccontato del suo lavoro e delle sue opere. [presentazione del curriculum]

Con queste prime poesie, che avete appena ascoltato, entriamo immediatamente nel suo mondo: un mondo dove l'anima è nel corpo e il corpo è nell'anima, un'anima e un corpo che provano dolore. Non stiamo parlando di un dolore personale, o ancor meglio, il dolore vissuto nella propria persona è chiave di accesso al dolore che pervade non solo l'umanità, ma gli animali, le piante e addirittura le cose. Questa coscienza del dolore, un dolore presente in ogni tempo e in ogni spazio conosciuto, diviene per Vera coscienza della stretta interrelazione tra le varie forme dell'esistente. Se è vero che posso sentire il dolore come parte del dolore del mondo è anche vero che forse è possibile sentirne la gioia? Questa è una delle vie di fuga che sembra aver trovato, sembra, perché la sicurezza e la stabilità non fanno parte del bagaglio che Vera porta con sé.

 

[letture da "La guarigione"]

Nel libro “La guarigione” Vera compie l'attraversamento più difficile. Per guarire dal dolore vi entra profondamente: salta il precipizio, fino a entrare nel gorgo, fino a toccare nel buio il fondale sommerso. È lì che si annida il grumo scuro di sangue, il feto non nato, la frattura, la piaga. Molto più semplice sarebbe fuggire, depistare. Vera invece compie un'azione di singolare audacia: penetra in questo territorio tanto pericoloso e decide non solo di osservarlo, ma di farsi quasi partorire di nuovo da esso e ne esce salva, con rafforzata consapevolezza. Questa rinascita non ha nulla di idillico, tutto duole, ma tutto ciò che era sparso ora è ricomposto: ritornano a visitarla i morti recenti e lontani nel tempo, i non nati, le paure che si annidano nelle ossa, la scoperta e il riconoscimento di quanto sia difficile discernere nell'odio l'amore e di quanto la vita sia impastata di opposizioni che la rendono complessa, ribaltano continuamente i punti di vista, rendono irti di ostacoli i giudizi su persone e vicende (emblematica è la poesia "L'aguzzino": eri come un cane irto/ nel tuo diverso amare/ più mordevi con odio/ più guaivi per male). Vera non rifiuta le difficoltà né ricerca facili soluzioni. La vita,sembra dire, è fatta proprio di questo sentirsi e accettare di essere scoperti fino al midollo, percezione che al poeta giunge come un dono, ma al tempo stesso è la sua condanna. ("A Caproni": perché a me solo parole/ per denudare la vita/ se lo scopo del poeta/ è curare la ferita?) Eppure la poesia ha ancora un altro valore, come lei dice proprio nella dedica che io trovo scritta su questo libro: perché per me la poesia è l'arte di guarire dal dolore di vivere.

 

[lettura di "Nel cuore della parola"]

La raccolta si presenta visivamente come una collana composta da materiali diversi per forma, colore, peso, dimensioni, eppure compatta: l'uso di questa diversità di materiali ci permette volta per volta di soffermarci, anzi ce lo impone. Ogni grano della collana è la voce/corpo di un individuo, ed è tanto particolare proprio perché strappata, incisa col coltello affilato in un momento preciso della sua quotidianità.

Ogni voce è dunque una storia, ma appunto è una storia strappata, lacerata, e di questa lacerazione se ne sente vivamente il rumore, non solo nelle orecchie, ma nella pelle. Di questa storia noi non conosciamo il prima, se non per segnali misteriosi, che con fatica possiamo provare a connettere, con la sensazione pervadente di banalizzarla, e non conosciamo il dopo. Il dopo ci si spalanca davanti come una strada angosciosamente aperta dove questi corpi/voci emersi per un attimo vengono inghiottiti.

Dice ledo Ivo, grande poeta brasiliano, che ha scritto una delle prefazioni al libro: "Il tessuto poetico usato da Vera Lúcia de Oliveira non è un arazzo, piuttosto un semplice ordito che indica la più vera materialità della vita". Ecco, forse questo è il segreto della condizione in cui ci pone la poesia di Vera, questa poesia riesce a materializzare la vita e noi ne siamo toccati. Perché questa vita, questa povera vita fatta per lo più di esseri lasciati ai margini - vecchi, bambini, vagabondi, affamati, creature sole, incapaci di decisione - ci appartiene, ci appartiene straordinariamente. E questa poesia ce le restituisce.

Come uno schiaffo in faccia, come un dolore profondo nelle viscere, come un battito cardiaco più pressante, e a volte, si, come una carezza e una musica. Vi sono in questo universo di dolori, di incomprensioni, silenzi, crudeltà, momenti di dolcezza che si manifestano con naturalezza, non in funzione di placebo, ma come attestazione di verità: la vita è anche questo.

Vorrei spendere ora solo poche parole rispetto alla scelta formale: il verso libero, ma un verso libero, come dice ancora Ledo Ivo, senza maiuscole, senza virgole, senza punti finali, un verso che si vuole nudo e sprovvisto di incanti e ornamenti, proprio per aderire il più possibile al parlato del quotidiano delle creature che Vera ha scelto di incarnare o che attraverso di lei hanno scelto di incarnarsi.

 

[letture da "Verrà l'anno"]

“Verrà l'anno” è un libro singolare per la sua morbidezza. Tutto accade, o più precisamente il canto si compone tra la notte del 31 dicembre e il primo di gennaio. L'io del poeta invece che partecipare all'euforia della festa preferisce ritirarsi nella propria casa, ascoltandone però tutti i suoni, percependone tutte le luminosità. Questa scelta di non partecipare non racchiude connotati di esilio, esclusione o non appartenenza, è invece un modo per vivere con profondità e sensibilità un momento di passaggio, emblematico di altri cambiamenti, grandi e piccoli che attraversano la vita.

La casa diviene un corpo che accoglie memorie e protegge non solo la parte più intima di sé stessi, ma un mondo di piccole vite, siano essi animali o cose, oggetti che per Vera possiedono un loro corpo sottile, così come tutti gli esseri viventi, in grado di comunicare. In questa casa sono fortemente presenti gli assenti, siano essi i morti, ma anche gli affetti lontani e coloro che soffrono. Come lei dice non sono semplice pensiero, ma occupano uno spazio, nel quale hanno diritto di esistenza, ma non preminenza rispetto al resto della vita.

La casa-corpo avvolge, consola, è letto, coperta sotto la quale sognare, svegliarsi, immaginare, partire, tornare. Sapendo però di avere come punto di riferimento il proprio sé, qualcosa di fragile e sacro da custodire con amore. La parola poetica diventa dunque manifestazione di interezza che a un tempo è bastare a sé stessi e accogliere l'altro, con la dovuta attenzione, con il rispetto di chi sa sentirsi e riconoscersi.

 

 

si ora puoi bussare

non vuol dire che aprirò solo

che ora l'attesa non è come se

io non ci fossi

o tu non ci badassi

Antonella Giacon, 17 gennaio 2007

   

by Claudio Maccherani