Nata
in Brasile, in Italia dal 1983, Vera Lúcia de Oliveira è attiva come
poetessa, docente universitaria e saggista. Ha ricevuto diversi premi
per la sua poesia sia in Italia che in Brasile, tra cui il prestigioso
Premio di Poesia dell'Accademia Brasiliana di Lettere nel 2005 e
recentemente, in Italia, il Premio Internazionale di Poesia Piero
Alinari per la raccolta inedita La carne quando è sola. ICoN incontra l’autrice per parlare della questione della lingua e dei nuclei tematici della sua poesia.
Nella
tua poesia il tempo è gestazione ma anche passaggio. In questo senso,
esiste un senso di continuità tra quello che Machado de Assis ha
chiamato le due punte della vita o sono piuttosto fotografie, istantanei
congelati sulla pagina come il moto di Drummond “de tudo fica um
pouco”?
Trovo assai interessate questa tua osservazione sul
legame della mia poesia con il tempo che definisci “in divenire”. In
realtà, per me l’unico tempo concreto e reale è quello del presente, che
posso percepire con tutti i miei sensi. E in questo presente c’è il mio
corpo e la mia coscienza con tutti i segni del già vissuto, che è
memoria e identità, e il progetto di futuro, che è speranza e forza per
andare avanti. E sempre in questo presente ci sono i miei cari, le
persone che amo, e anche tutta la gioia possibile e pure tutto il
dolore, perché non rifiuto nulla, ogni esperienza che ci capita deve
essere vissuta fino in fondo, anche se ci fa soffrire. La vita non è
indifferenza, torpore o sonno, la morte è dormire e perdere il senso
della realtà. Forse è vero che il presente, come dicono i filosofi, è
già passato nel momento stesso in cui ci accorgiamo che lo stiamo
vivendo. Tuttavia è ciò che abbiamo e questo è il tempo finito e
limitato che ci è stato dato. Nella mia poesia raccolgo frammenti di
questo divenire continuo del tempo, perché essa è un dopo, la poesia è
il momento di riflessione e elaborazione di un fiat lux in cui è stato
possibile mettere dentro l’anima del mondo la mano e tirare fuori da
quel magma parole dense, come fa il mago con il suo cappello a cilindro.
La
tua è anche la poesia della “cidadezinha qualquer” e della “vida besta”
del poeta Carlos Drummond de Andrade. Che ruolo ha il luogo nella tua
poesia? Il processo immigratorio incide nella dimensione del luogo
squarciato dal tempo e dal dolore, o si tratta di una dimensione
esistenziale?
Con il luogo, il mio rapporto è diverso, nel
senso che riesco a convivere e a essere in luoghi diversi allo stesso
tempo. Non ho il dono dell’ubiquità, non è questo, quello che voglio
dire è che ho con i luoghi un rapporto che definirei sensuale, cioè di
tatto, odore, sapore. Quando arrivo in un posto, la prima cosa che
faccio è andare a cercare una buona pasticceria e assaggiare un dolce o i
biscotti tipici di quella città o regione. E in quel dolce, sento il
sapore di quel luogo, fatto del lavoro di tante donne nel tempo alla
ricerca di un modo per vedere il bello nel brutto, anche nella povertà,
anche nella sofferenza. Le donne hanno inventato i dolci per i bambini,
per farli felici e, dunque, per amore. I dolci, più che i piatti salati,
parlano di questo amore vissuto e tramandato e forse è per questo che
mi piace conoscere i luoghi anche attraverso questo aspetto meno
osservato o a volte persino trascurato. Ma a ciò aggiungo tutte le
sensazioni fisiche che questi luoghi svegliano in me e che si legano ad
altre, di altri luoghi, ognuno diverso, ognuno con la sua identità, di
gente dalle più lontane provenienze e origini. Mi piace il viaggio,
perché è la dimensione più vera dell’essere umano. Dunque, se il tempo è
solo il presente, dentro di me porto tutti i luoghi in cui sono stata e
con i quali ho una relazione continua, anche se non sono più lì, ora,
in questo momento. I luoghi sono in me, li trasporto nell’anima.
Per
tornare alla tua domanda, il luogo ha un ruolo importantissimo nella mia
poesia, la stessa memoria è un luogo e non è un caso che le persone con
malattie legate alla memoria perdano la dimensione dello spazio. Il
luogo è una dimensione esistenziale, nel senso proprio del termine, e
cioè lo spazio dell’esistenza, sia del dolore che delle esperienze
felici.
Quando
si parla di scrittori migranti è quasi scontato riflettere sulla
lingua, di come la scrittura possa risentire del passaggio tra tempi e
luoghi. Alcuni scrittori migranti scrivono soltanto nella lingua del
paese di immigrazione, affidando alla lingua madre una funzione
unicamente comunicativa. Tu oggi scrivi indifferentemente in portoghese e
in italiano. Esistono dei passaggi obbligati tra l'una e l'altra? Si
può dire che anche in questo caso si tratta di una necessità di
comunicazione?
All’inizio era una necessità di
comunicazione. Quando sono arrivata in Italia, avevo già una breve
raccolta pubblicata in Brasile e posso dire che mi sentissi già, almeno
dentro, scrittrice, poeta. Ho continuato a scrivere in Italia,
utilizzando il portoghese materno, ma era come scrivere per me stessa.
Per condividere tutto ciò con i nuovi amici avevo bisogno di fare una
traduzione sommaria, che tuttavia mi lasciva sempre insoddisfatta. Mi
impegnavo in questo passaggio da una lingua all’altra, mentre
interiorizzavo un idioma, l’italiano, che allora era solo di
comunicazione. A dire il vero, però, l’italiano per me è sempre stata
una lingua di poesia, anche perchè mi sono avvicinata a questo idioma
attratta dai suoi poeti.
Succedeva che ogni volta che imparavo una
nuova parola era come se l’assaporassi in bocca. La ripetevo e
l’ascoltavo incantata e mi piacevano certe parole o espressioni assurde,
e forse scontate per i parlanti nativi, come “dritto dritto”, che mi
dicevano quando chiedevo un’informazione su un certo posto che stavo
cercando a Roma. Ero come una bambina che impara nuove parole e si
diverte a pronunciarle e o farle ripetere dalle altre persone. Se
instauri un rapporto del genere con una lingua, la poesia ti vieni
spontanea. Scrivere in italiano mi è venuto naturalmente, senza traumi,
solo uno spavento iniziale, un timore di perdere la mia lingua materna
come lingua di poesia. Poi le due si sono accomodate, ognuna ha occupato
uno spazio, ora sono comari, si parlano e, quando meno me lo aspetto,
quando sono distratta, decidono loro quello che debbo scrivere e come
farlo. Mi fa quasi rabbia che siano loro a decidere in quale codice io
debba scrivere. Se decido io, mi vengono versi brutti, che scarto. Se
decidono loro, quando la poesia vi si incarna, allora sì, riconosco che
in quei momenti Dio è passato nei paraggi e che, attraverso parole
umane, mi ha permesso di sfiorarlo.
Vera Lúcia de Oliveira ha pubblicato libri di poesia e di saggistica, ricevendo premi in Italia e in Brasile. Tra i suoi libri di poesia, citiamo Il denso delle cose (2007), Verrà l'anno (2005), A chuva nos ruídos (2004), No coração da boca/Nel cuore della parola (2003), Uccelli convulsi (2000), La guarigione (2000), Tempo de doer/Tempo di soffrire
(1998). Autrice dai versi corti, dalla semplicità essenziale, scrive
sia in italiano che in portoghese, traducendoli da una lingua all'altra.
Le sue liriche riflettono su questioni esistenziali, sul tempo che
passa, sul dolore; la sua è la poesia del tempo in divenire, mai del
tutto compiuto, che lascia nel presente impronte, residui e frammenti
vivi e palpabili: sono scene del quotidiano, dell'infanzia, ritagli di
paesaggi urbani o interni, ricordi che suggeriscono una riflessione sul
tempo che potrebbe identificare la sua poesia come il passaggio delle
stazioni e delle stagioni.