Intervista ad
Antonella Anedda
fatta il 07/12/2000 da
Vera Lúcia de Oliveira
(Maccherani),
(nell'ambito di "Poesia a Palazzo
dei Priori" del Merendacolo di Perugia e pubblicata sulla
Revista da APIESP - Associação de Professores de Italiano do Estado de
São Paulo, Insieme, n.8, San Paolo, Brasile, 2001, pp.71-73)
Antonella
Anedda è nata a Roma dove ha studiato laureandosi in Storia dell’arte
moderna. Il suo esordio letterario risale al 1992, anno in cui uscì la sua
prima raccolta poetica, Residenze invernali (Crocetti, Milano, 1992;
Premio Sinisgalli, Premio Diego Valeri, Tratti Poetry Prize) che la rivelò come
una delle voci più originali e significative della nuova poesia italiana. Hanno
fatto seguito la pubblicazione della raccolta di saggi e racconti Cosa sono
gli anni (Fazi Editore, Roma, 1997), il volume di traduzioni poetiche Nomi
distanti (Empiria, Roma, 1988) e la raccolta Notti di pace occidentali
(Donzelli Poesia1999). Nella sua attività di traduttrice dal francese ha
inoltre curato un’antologia di poesie e prose del poeta Philippe Jaccottet.
-
Quando
hai cominciato a scrivere? La scoperta della poesia è il risultato di un
processo, o è avvenuta per rivelazione, per illuminazione?
Ho
iniziato a scrivere presto, ma ho pubblicato le prime poesie tardi, dopo i
trent’anni. La “scoperta della poesia” come tu la chiami è avvenuta
attraverso la lettura verso i dodici, tredici anni di una poesia di Aleksandr
Blok. Ricordo che quei versi “Ha portato il vento di lontano...” hanno avuto
su di me l’effetto di uno spalancamento. C’era una porta tra il paesaggio
esterno e quello interiore che a volte la poesia poteva aprire. C’era uno
spazio con buone correnti dove mi potevo mettere come un uccello o un pesce. Al
liceo ho letto i classici alla luce di questo apalancamento: l’aria che trema
di claritate di Cavalcanti aveva alle spalle il Cantico del Pentateuco e
davanti Blok.
-
Qual
è il tuo percorso, che poeti hai letto, che scrittori ti hanno segnato?
L’elenco
è complicato e naturalmente cambia un po’ nel tempo. A caldo: Dante, Foscolo,
Puskin, Hopkins, Mandel’štam Cvetaeva, kavafis, Gertrud Kolmar Zbignew
Herbert. Ho amato e amo moltissimo Cecov e Dostoevskij (soprattutto da L’Idiota
ai Fratelli Karamazov) e Leskov e dei contemporanei mi piacciono Victor
Pelevin e Ludmilla Ulickaja. Sulla corrente di Blok ho letto subito dopo Guerra
e Pace di Tolstoj e Le anime morte di Gogol. Ero giovane, ma credo
che questa lettura mi abbia dato la misura del respiro, l’importanza che ha
nella scrittura l’ampiezza. Da allora non temo la solitudine: mi basta aprire
un romanzo... Però ci sono molti altri scrittori non solo poeti o romanzieri
che penso mi abbiano segnato: Flaubert, Proust e Beckett (per il quale ho un
vero e proprio culto) Kierkegaard, Wallace Stevens e Marianne Moore, Paul Klee,
gli scritti di Mondrian. Fra i poeti contemporanei è stato importantissimo
Philippe Jaccottet.
Oggi
sento il bisogno di contenere l’attrazione per i russi, ma anche per i
mistici: da Giovanni della Croce a Maria Zambrano. Mi sono riavvicinata alla
poesia in lingua inglese, ma non amo la poesia confessionale americana. Da
qualche tempo ho riletto con attenzione Elizabeth Bishop (che infatti prende le
distanze dalla poesia confessionale). Capita di leggere un poeta, di ammirarlo
magari, ma non di “vederlo” davvero. Mi è capitata la stessa cosa con
Pascoli.
-
Hai
affermato che la poesia sostituisce talvolta una stretta di mano, che è
atto di comunicazione, un ritrovarsi con l’altro. Ma il poeta è solo
quando scrive e spesso è solo perché non può stare dove si compiono i
riti della volgarizzazione della vita e anche della morte. La solitudine è
una condizione e la poesia è il ponte per uscirne?
“La
poesia come una stretta di mano” è un’affermazione di Paul Celan altro
poeta per me importante che mancava all’elenco. Questo però non esclude la
solitudine che è una condizione non necessariamente negativa, almeno per me.
Anzi.
-
Il
“nome è anche raggiungere se stessi”, hai scritto in una poesia. Ma
allo stesso tempo conviviamo con l’appiattimento della lingua, con nomi
che non significano, che non riportano più né alle cose né agli esseri,
talmente sono logori e generici. Può il poeta, da solo, reinaugurare la
lingua, rifondare un nuovo rapporto fra il nome e le cose?
Il
verso “se nome è anche raggiungere se stessi” mi è stato suggerito da una
riflessione di Giacoma Limentani nel suo libro Il Midrash, quando nota
che in ebraico Shem (nome) e Sham (luogo, ma nel senso di andare verso un luogo,
moto a luogo) hanno la stessa radice. Raggiungere il proprio nome come se fosse
un luogo è mettersi in cammino verso se stessi, non solo diventare se stessi,
ma smettere di essere ciò che si era accettando di attraversare la propria
aridità, il proprio deserto. Non penso però che il poeta debba o possa
“rifondare un nuovo rapporto tra il nome e le cose”. Le cose sono qui e le
parole possono essere logore, anzi “logoro” è una parola molto bella.
L’importante è provare a non essere generici, ma questo è un problema di
attenzione, di sforzo. C’è la tentazione a volte di lasciar perdere, di
abbandonarsi al suono della propria poesia, alla genericità (che è anche
abilità).
-
In
un verso hai scritto: “dai forma al buio”. È quello che resta al poeta
di oggi? Perscrutare, modellare, ordinare il buio?
Intendevo
proprio un gesto concreto. Plasmare il buio come una materia, come si fa nella
scultura. Alla poesia “restano" in realtà molte cose, ma le fa
guardando, pensando, ascoltando e scrivendo e riscrivendo.
-
Ogni
poeta ha un concetto di poesia, ne da una diversa definizione. Per te, che
cos’è la poesia?
Una
cosa terrena, un dono e un lavoro, provando ad andare avanti e invece magari
tornando indietro. Insomma un fare molto precario, come la vita.
-
Scrivi
spesso? Lo fai metodicamente, come tanti poeti? O per te la poesia è quel
lampo, quell’illuminazione che avvolge e coinvolge tutto l’essere nel
momento del suo manifestarsi?
Non,
non scrivo spesso, soprattutto a tavolino. Leggo e appunto qualche verso sui
libri alla fine delle pagine. A un certo punto, a volte c’è non “un
lampo”, ma un fuoco che si accende e poi si spegne. Allora lo seguo e divento
metodica. Oppure in certi periodi sono così metodica che accendo con i miei
rami quel fuocherello.
-
Come
vede la poesia italiana in questo secolo? Ci puoi tracciare un breve
panorama?
Non
sono in grado di tracciare un panorama o un mappa: il Novecento italiano è una
terra sterminata, mi sembra però che sia fra i coetanei che fra i più giovani
ci siano molte brave poetesse e molti bravi poeti. L’elenco sarebbe lungo, ma
comprenderebbe orientamenti diversi senza recinti di scuole o orientamenti.
M’interessa moltissimo la poesia dialettale, la leggo come leggerei una poesia
straniera, ma forse essendo di origini sardo-corse leggo anche gli italiani così.
Vera
Lúcia de Oliveira, Perugia, 7 dicembre 2000
(Antonella
Anedda)
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Claudio Maccherani )