Intervista ad
Andrea Zanzotto
fatta il 28/09/1993 da
Vera Lúcia de Oliveira
(Maccherani),
(nell'ambito di "Poesia a Palazzo
dei Priori" del Merendacolo di Perugia e pubblicata sulla
Revista da APIESP - Associação de Professores de Italiano do Estado de
São Paulo, Insieme, n.7, San Paolo, Brasile, 1998-1999, pp.9-15)
Andrea
Zanzotto è nato a Pieve di Soligo (Treviso) il 10 ottobre 1921. Non si è mai
allontanato, tranne brevi periodi, dal paese natio, sebbene abbia attivamente
partecipato agli eventi culturali e storici che hanno contrassegnato l'Italia in
questo secolo. Considerato uno dei più grandi poeti italiani viventi, le sue
poesie sono tradotte in alcune delle principali lingue europee. È un
intellettuale di vasta ed eclettica formazione, senz'altro fra i più colti
della propria generazione, e non solo. L'estesa antologia critica sulla sua
opera annovera nomi come Carlo Betocchi, Giacinto Spagnoletti, Giuseppe
Ungaretti, Eugenio Montale, Giorgio Caproni, Pier Paolo Pasolini, Alfonso
Berardinelli, Maria Corti, Claudio Magris e tanti altri.
Ha
pubblicato le seguenti raccolte: Dietro il paesaggio (Mondadori, 1951),
Elegia e
altri versi (La Meridiana, 1954), Vocativo (Mondadori, 1957), IX Ecloghe (Mondadori,
1962), La Beltà (Mondadori, 1968), Gli sguardi i fatti e senhal
(Tip. Bernardi,
1969; Mondadori, 1990), A che valse (Scheiwiller, 1970), Pasque (Mondadori,
1973), Filò (Ed. del Ruzzante, 1976; Mondadori, 1988), Il Galateo in Bosco (Mondadori,
1978), Fosfeni (Mondadori, 1983), Idioma (Mondadori, 1986), Poesie
1938-1972,
antologia a cura di Stefano Agosti (Oscar Mondadori, 1973). In prosa ha
pubblicato Sull'Altopiano (Neri Pozza, 1964) e Racconti e Prose (Oscar Mondadori,
1990). Ha un'importante produzione saggistica e critico-letteraria, apparsa su
vari quotidiani e periodici, di cui una parte è raccolta nel volume Fantasie di
avvicinamento (Mandadori, 1991). Altri volumi sono attualmente in preparazione.
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Spesso
i poeti hanno rapporti difficili con la propria città, la propria terra, un
rapporto di amore-odio intenso e sofferto. Lei, che legami ha con Pieve di
Soligo?
È
un rapporto molto ambiguo, perché io sono nato in questo paesello prealpino
veneto, sono sempre vissuto qui, mi sono spostato poco e sempre meno volentieri,
con il passare degli anni. Questo fondo di angolo nascosto mi dava la possibilità
di restare in una specie di rifugio "dalla storia". Era un rifugio non
certo del tutto sotterraneo, ma formato di cunicoli che potevano condurre
all'aperto o al chiuso a seconda delle esigenze di riparo, entro la mobilità
onirica di quel caos che tutti abbiamo in noi.
Lo
stare, il dimorare, l'immorare in un luogo unico, lo vedo d'altronde come
semplice residuo di quella realtà contadina nella quale pochissimi, a meno che
non fossero costretti da necessità di migrazione o fame o guerra, si muovevano.
Si andava a fare il viaggio di nozze (qui da noi) magari fino a Treviso o a
Venezia, e ciò quando già si era abbastanza in su nella gerarchia sociale.
Credo
di aver ereditato certi pattern comportamentali da questo mondo contadino perché
non sento un gran desiderio di muovermi, fermo restando che potrei amare
svisceratamente qualunque luogo del mondo, perché la natura è sempre ricca di
meraviglie, di paesi e di paesaggi capaci di ogni diversa seduzione, e di luoghi
degni di viverci, e di "essere sognati".
Ma,
penso, il rapporto con il luogo e con la terra deve essere feroce ed esclusivo,
come un innamoramento, altrimenti non possiamo capire niente né di noi, né
della terra né dell'ambiente, né dell'universo. Ho già avuto modo di parlare
di alienazione turistica. C'é gente che viene portata di qua e di là come
sacchi di patate, mentre occorrerebbe quel voyage o grand tour che era possibile
fino a tempi abbastanza recenti, una grande avventura di formazione spirituale
che durava mesi o anni (però soltanto per pochi privilegiati).
Un'altra
possibilità è il piccolo voyage, o meglio trip (e talvolta grande trip) per il
quale non ho bisogno di incentivazioni, perché posso compierlo in
continuazione. Posso ripercorrere all'infinito le stesse strade, gli stessi
minimi itinerari che, pur in perenne mutazione, nella loro apparente stabilità
testimoniano i misteri della continua metamorfosi della natura. Devo aggiungere
che per me contò sempre moltissimo la vicinanza di Venezia, dove
"tutti" finiscono per arrivare, rendendomi possibile i più
straordinari incontri di letterati e artisti di tutto il mondo.
Ma
poi, anche questo rapporto con la propria terra, come tutti gli amori, è
destinato a finire: ad un certo momento ci si sente lontani da tutto. Alle volte
penso che abbandonerei volentieri il mio paese, anche perché più si diventa
vecchi più si vedono scomparire attorno a noi i compagni di vita. Si diventa un
po' sconosciuti, ed io per parte mia comincio già a conoscere poco i giovani
del paese. Continuo ad andare di tanto in tanto nelle scuole, però ho in
prevalenza rapporti con quei giovani e con quegli insegnanti che vengono a
cercarmi perché hanno vivi interessi per la letteratura e la scuola.
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Come
è stata la sua infanzia? È stata felice? E quanto questo suo attaccamento
e amore per la natura hanno inciso nel suo modo di essere e nel suo fare
poesia?
Già
nella lontana infanzia, mi fu duro avvertire la situazione anomala della mia
famiglia, in lotta con la precarietà. Si era reso difficilissimo il lavoro a
mio padre per la sua opposizione al regime. Poteva mancare da un giorno
all'altro il sostentamento. Si apparteneva a una fascia piccolo-borghese ma
quasi di miseria. Mio padre ha spesso dovuto cercare lavoro all'estero o in zone
difficili dell'Italia, come l'alto Cadore. Nel nostro paese pochi avevano votato
contro il fascio nel plebiscito del 1929, e fra questi c'era mio padre, cosa che
tutti sapevano. Ricordo che la maestra a scuola ci aveva presentato sulla
lavagna la scheda elettorale col "sì" e tutti i bambini dovevano
ricopiarla. Io invece, memore degli insegnamenti familiari, ho scritto
"no". la maestra si è precipitata a distruggere le "prove"
perché non venisse compromessa la mia famiglia. Nei paesi infatti,
fortunatamente, c'era una specie di catena di Sant'Antonio di solidarietà che
attutiva il peggio.
Mio
padre era insegnante di disegno, artista appassionato. Spesso egli usciva a
dipingere en plein air e io non di rado lo accompagnavo, fin da piccolo. Mi
sentivo esaltato, ma anche un po' sopraffatto dalla sua bravura (e forse ciò mi
ha allontanato dal dipingere). Ma questa continua sollecitazione mi aveva creato
un senso di omogeneità tra arte e natura. La natura era bella, mio padre la
ritraeva, la riportava in casa; era tutto un pullulare di fattori di alta
suggestione. Ricordo soprattutto colori, suoni, i paesaggi che lui dipingeva, le
musichette comuni che risuonavano per le strade del paese e nella mia casa,
grazie a improvvisati cantori e a vetusti grammofoni. Ricordo tutti gli elementi
che mi affascinavano, che mi davano il senso di un possibile "modo di
essere" più alto, migliore. E fin da bambino avvertivo quel canto interno
della lingua che è la poesia, attraverso filastrocche e passi di poesiole
(lette in casa o alle elementari) che scintillavano e tintinnavano nella loro
essenza fonico-ritmica.
Posso
dire che c'è in me un fondo idillico, ma che talune circostanze hanno attivato
anche un fondo drammatico che mi ha portato, lungo il tempo, verso tensioni
violentissime nel campo espressivo e quindi alla necessità della
sperimentazione, di cercare nuove vie, diversi equilibri (o squilibri
formali...).
Del
resto ho sofferto lutti familiari pesantissimi, da cui è derivato il senso di
provvisorietà spaventosa che ha accompagnato la mia infanzia. Quando avevo
circa sette anni è morta una mia sorellina che non ne aveva nemmeno sei, e la
sua gemella morì anch'essa, sempre per malattie che oggi si sarebbero curate
con poche iniezioni. La mortalità infantile era allora altissima. Durante
l'ottobre a casa mia c'era un gran rigiro di angioletti di latta montati su
croci ad asta e questi angioletti portavano il nome, il cognome e la data di
nascita e morte dei bambini. Andavano a finire nell'angolo di cimitero ad essi
riservato e le famiglie facevano dipingere o rinfrescare per i giorni della
Commemorazione questi angioletti. Mio padre aveva un sovrappiù di lavoro di
questo tipo, da cui ricavava poche lire, un po' di patate, frutta o fagioli.
C'erano dunque nella mia infanzia degli elementi strani, inquietanti, come
appunto quel lato del cimitero con le croci di latta che stridevano al vento e
sembravano fatte apposta per la retorica della morte e dell'innocenza. Insomma
non ho mai vissuto la natura come avrei voluto, con totale partecipazione, perché
c'erano delle spine irritative sia all'interno della mia storia privata sia
nell'ambito generale.
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Qual
è il suo rapporto con il dialetto?
Il
mio rapporto con il dialetto è stato inconsapevole: era per me un dato
naturale, appreso così, parlando in famiglia, nel gruppo, parlando come si
respira. Solo più tardi ho preso consapevolezza della lingua, e poi delle
lingue, aiutato da un certo plurilinguismo prodotto dai molti immigranti che
ritornavano stagionalmente, e dalla presenza "mitica" del latino della
chiesa. Di fatto, le persone più colte e scolarizzate parlavano anche
l'italiano nelle situazioni formali e lo usavano scrivendo. Come lingua
internazionale si aggiungeva poi il francese: si restava entro una fraternità
neolatina.
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È
un abitudinario? Quando scrive meglio, al mattino o di sera?
Io
faccio ora la vita di un pensionato. Quando ho lasciato la scuola, dopo 35 anni
di insegnamento, avevo intenzione di spostarmi a Milano, dove ho un bugigattolo
occupato ora dai figli. Ho cominciato invece ad essere tormentato da acciacchi
abbastanza pesanti: disturbi psicosomatici, dolori persistenti e quindi
l'accentuarsi di balordi elementi fobici che hanno ridotto il mio circuito di
movimento. Tutto ciò si attenua solo se riesco a imboccare i vecchi filoni
della mia preistoria affettiva che va verso il mito "ambientale",
nonostante tutte le devastazioni che lungo i decenni, e specie qui nel Veneto,
l'hanno sopraffatto. Devo faticare per ritrovare qui la mia geografia originale:
tutto è cambiato, e anche questa è una causa di grande disagio. Ora non mi
sento più dentro un paesetto ben articolato in mezzo ad altri paesetti, ma
dentro uno sfilacciamento urbano e non urbano nello stesso tempo. Dovrei
adattarmi all'idea che il Veneto è già una megalopoli inconsapevole di esserlo
e che io ci vivo. Invece conservo ancora un'idea infantile degli spazi e non la
rifiuto perché, infine, imboccare una stradina mai imboccata prima in tanti
anni o trovare una valletta nuova è sempre una scoperta.
Tornando
alla mia giornata, siccome il mio sonno è incerto, trascorro il mattino
cercando di liberarmi delle nebbie dei sonniferi, con piccoli lavori poco
impegnativi. Ma ci sono continuamente occasioni d'incontro: sia con vecchi
amici, sia con circoli locali. E ci sono anche dei giovani che vengono ad
aiutarmi a riordinare un po' le mie scartoffie.
Ho
poi sempre un enorme arretrato di progetti non attuati da riprendere. Però il
momento poetico viene, come si sa, quando viene, posso scrivere in qualsiasi
momento, specie di notte. A volte scrivo magari cinquanta frammenti tutti di
seguito. Ma mi piace anche molto indulgere ai diari-brogliacci dove annoto le
mie fantasticherie di tipo vecchio e di tipo nuovo. Poi magari li elimino in
buona parte. Essi servono soprattutto a farmi capire quanto sono scombinato, ma
qualche volta funzionano da vecchi muriccioli su cui ha attecchito un seme. Ho
una specie di attività da flâneur. Ma ritengo che per la poesia occorra
lasciarsi trasportare come sugheri dalle acque. Per trovarsi magari nel
pantano...
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Lei,
nella sua opera, cerca un linguaggio per questo tempo, la poesia possibile
all'uomo di oggi, così turbato, inquieto, senza risposte, lacerato dalla
guerra, dallo sfruttamento indiscriminato dell'ambiente, dal consumismo. Il
suo sperimentalismo, le sue ricerche linguistico-strutturali non sono,
pertanto, fini a se stesse, nel senso di un neovanguardismo gratuito e
vuoto, ma sono un percorso essenziale, intimo e traumatico. Vuole descrivere
un po' questo percorso?
L'idea
dello sperimentalismo l'ho sempre implicitamente accettata perché non ho mai
creduto a una poesia "immobile", pur avendo sempre davanti modelli
classici, irrinunciabile luce ed enigma. Il mio era un andare avanti con molta
incertezza, al contrario dei movimenti avanguardistici che avanzano un po' a
carro armato, con forte apparato teorico. Io credevo alle amicizie, alle
sintonie parziali, non ai gruppi. Il gruppo rappresentava per me la gestione di
qualcosa di extraletterario, mentre io pensavo che ognuno dovesse seguire la sua
strada e poi confrontarsi con gli altri. Già in anni lontani avevo elaborato
l'idea del "convenzionismo", per cui ogni modello di scrittura o
prospezione era da accettare soltanto come una "morale provvisoria", e
per qualche aspetto falsa. In ciò si rispecchiava il diluvio di falsità che
sentivo intorno a me, anche come fatto politico e sociale. L'incombere del
cosiddetto "equilibrio del terrore" mi sembra trattenere l'intera
realtà in un ossimoro paralizzante. E uno sgomentante disagio si sta protraendo
nell'oggi, diverso, ma forse in peggio, da quella situazione: e basti pensare
agli orrori della ex-Jugoslavia. Per questo non può apparire che convenzionale,
già nata falsa, qualunque innovazione.
D'altra
parte l'accumulo esponenziale di imprevisti di ogni genere e la trasformazione
disordinata della realtà nei recenti decenni provocavano il senso di un
amorfismo, di una derealizzazione sempre più soffocante. Nello sperimentalismo
si rispecchiava tutto questo, e insieme si sviluppava un tentativo sempre
frustrato di superarlo. Anche se appariva, talvolta, il lampo di un'innovazione
positiva.
Comunque,
la meditazione sul linguaggio e sulle sue impotenze (varie come le sue potenze),
l'avvertire il linguaggio come qualcosa da mettere perpetuamente in questione,
come uno strumento che dovesse mutare in continuazione per offrire qualche
chance operativa - e nella realtà e nel lavoro poetico - hanno avuto per me una
continua, intensa stimolazione, anche in situazioni limite.
Fin
dalla primissima giovinezza mi ero soffermato su temi psicoanalitici,
antropologici, linguistici come la convenzionalità e lo slittamento dei
significati in rapporto ai segni, l'irreperibilità - quando si parla - di un
"vero" e preciso referente esterno. Certe esperienze in vivo mi
moltiplicavano all'infinito le durezze di quei temi. Da una parte esisteva il
linguaggio immediato ed eterno della "natura" che non afferma eppure
non nega: il suo avvolgimento mi si presentava come più dolce che tenebroso.
Invece quando entrano in scena esseri umani il linguaggio è sempre sul punto di
non funzionare. Forse di là viene anche la mia primitiva tendenza a tener sotto
mano modelli d'espressione "sicuri". E per queste vie andavano le mie
meditazioni sul petèl, sul linguaggio infantile, risalenti agli anni quaranta,
a quando non conoscevo affatto Jakobson. Mi sorprendevo a riprendere - anche
ironicamente - il gusto del bamboleggiare con linguaggi pseudo-infantili, con
dialetti inventati o effettivamente usati, magari col gatto di casa. E, appunto,
non perdevo di vista la tradizione, che, in un certo senso, poteva sovrapporsi
senza difficoltà alla natura perché ormai era tale da apparire emanazione di
una sapienza della natura stessa...
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Secondo
lei, quali sono i rapporti fra storia, storiografia e poesia?
Continuo
a pensare che non esista storiografia più precisa della poesia, se essa viene
correttamente interpretata, perché nel suo corpo "ectoplastico" si
infiltrano tutte le più acuminate realtà della storia e in esso si esprimono,
anche (soprattutto) negli aspetti formali.
Noi
sappiamo di più, forse, della realtà del mondo antico attraverso un frammento
di vissuto "salvato" dalla poesia che attraverso la ricerca
archeologica.
L'ultimo
gradino dell'essenza, l'ultimo distillato del vivere si accompagna con questo
andirivieni della poesia e corrisponde ad esso. Resta tuttavia la compresenza,
per me, di un mito, quello di una certa poësis perennis, cioè immune dal
tempus edax, che si sgranocchia via tutto. Del resto, si sa che anche le lingue
muoiono, e con esse la verità più intima dei messaggi che esse hanno portato.
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Che
cosa pensa del momento difficile che viviamo, momento di imbarbarimento
quasi generalizzato? La poesia può fare qualcosa, può darci speranza?
Oggi
non si sa bene più cosa sia l'uomo. Fino a non molto tempo fa si credeva di
saperne molto, sull'essenza dell'umano, su ciò che fosse la vera humanitas, e
su quel frutto dell'evoluzione, tutto sommato positivo, che l'uomo appariva.
Durante il secondo dopoguerra, tuttavia, e soprattutto negli anni del riarmo
atomico, che dava una soffocante carica di nonsenso generale al "dato
umano", si è molto diffusa una specie di sfiducia globale dell'uomo verso
se stesso. Si tentava di cancellarla con l'attivismo di uno sviluppo economico e
di un presunto progresso politico, che poi si è ridotto a poca cosa, anche se
non si può negare che vi sia stato qualche filo lucente di positività. A
distanza di molto tempo, ormai, dai primi anni del dopoguerra il bilancio si
rivela deludente, perché l'uomo sembra vivere soltanto di residui di ideologie,
marcate da forti interrogativi anche se non annullate del tutto (come molti
pensano) e minate da una violenta "carica" nichilista. L'uomo sembra
assumere in proprio il sentimento dell'entropia in atto. Cosa può la poesia in
un simile quadro, pur nascendo dai sottofondi più celati della vita? Forse
potrebbe dire qualcosa di valido per l'umanità, ma non esiste il parametro per
definire questo "qualcosa". E sapere almeno qualcosa sul proprio senso
(destino?) è necessario. L'uomo sta ribollendo nel proprio enigma, e la poesia
non può dare che dei lampi di "consolazione", nei quali appare ancora
il miraggio dell'autofondazione e dell'autogiustificazione dell'essere. In essa
c'è dunque un qualche valore, almeno provvisorio. Ma il quadro che abbiamo di
fronte è quello di una catastrofe "ecologica" della mente (ricorderei
qui Bateson): l'urgenza di una visione ecologica del mondo si è resa necessaria
nel momento in cui si è concretizzata la minaccia apportata all'ecosistema in
generale da quel piccolo, terribile sistema che diciamo uomo.
La
poesia continua (per ora!) a dare il suo bip-bip che poco presume ma si sente
non tacitabile. E chissà che non vi sia chi lo coglie. Bisognerebbe poi
ricordare (insieme con i Surrealisti) che la poesia dovrebbe essere fatta da
tutti, non da uno.
Vera
Lúcia de Oliveira, Perugia, 28 settembre 1993