Intervista a
Gianni D'Elia
fatta il 07/03/1992 da
Vera Lúcia de Oliveira
(Maccherani),
(nell'ambito di "Poesia a Palazzo
dei Priori" del Merendacolo di Perugia e pubblicata sulla
Revista da APIESP - Associação de Professores de Italiano do Estado de
São Paulo, Insieme, n.7, San Paolo, Brasile, 1998-1999,
pp.21-26)
Gianni
d'Elia vive a Pesaro, dove è nato nel 1953. Insegna privatamente e traduce dal
francese (I nutrimenti terrestri di Gide, Einaudi, 1994; Lo Spleen di Parigi
di
Baudelaire, di prossima uscita da Einaudi). Ha fondato la rivista di critica e
poesia Lengua (1982-1994). Ha già al suo attivo sei raccolte di poesia: Non per
chi va (Savelli, 1980), Febbraio (Il lavoro editoriale, 1985), Segreta (Einaudi,
1989), La delusione (Edizioni l'Obliquo, 1991), Notte privata (Einaudi, 1993),
Congedo della vecchia Olivetti (Einaudi, 1996). Nel 1995 è uscito il romanzo
Gli anni giovani (Transeuropa), che raccoglie una trilogia narrativa di cui
erano già apparse due parti (1977, Il lavoro editoriale, 1986; Infernuccio
itagliano, Transeuropa, 1988). Lo abbiamo incontrato a Perugia per questa
intervista, accettata con generosità ed entusiasmo e trasformatasi in una
piacevole conversazione. D'Elia, fra l'altro, ha appena vinto il premio Montale
di poesia 1996.
-
Gianni,
nella tua poesia si sente molto la presenza di una natura offesa dall'uomo e
di un mondo in disordine, mondo nel quale ci si ritrova con fatica e dolore.
Si,
oggi è molto più la natura offesa dall'uomo che il contrario. L'uomo offeso
dalla natura è un po' una logica leopardiana, ma poi di un Leopardi che non è
mai esistito, perché per Leopardi la vera natura era il destino biologico, cioè
la morte. Non erano certo gli alberi, i fiori, le montagne, le cose belle che
piano piano l'uomo distrugge. Ma la logica oggi purtroppo è quella del dominio,
l'idea appunto che ci sia un dominio assoluto e incontrastato dell'uomo sulla
natura, cioè la tecnica, e dell'uomo sull'altro uomo, cioè il capitalismo, che
per quanto rinnovato e democratico, ha sempre una base antropologica
fondamentalmente illiberale. Questa logica del dominio rende il disordine, come
affermi nella tua domanda, e quindi poi la fatica e il dolore di esserci.
-
Qual
è per te il ruolo della poesia oggi? La poesia dev'essere impegnata con la
vita, o al poeta può bastare l'impegno con la sua arte?
Non
so se la poesia possa avere un ruolo. Quando gli facevano questa domanda,
Pasolini diceva: "Ruolo, quale ruolo? La scrittura è una abitudine, scrivo
per abitudine, non c'è nessun ruolo". Egli cioè derubricava, dava meno
enfasi a quest'idea che il poeta debba avere un ruolo. Io direi che più che
ruolo, termine che implica sempre una definizione di status, il ruolo sociale ad
esempio, preferirei funzione, che potrebbe essere quella, insieme alla coscienza
culturale - ossia alla cultura nel senso più ampio - di rendersi parte della
rinascita, dello sviluppo o della intensificazione di una cultura critica. La
poesia può partecipare come coscienza critica che si affianca alla coscienza
umana più integrale, cioè la coscienza culturale. E poi la poesia non
sostituisce la cultura. Io non ho questa concezione, perché c'è una differenza
fra cultura e poesia. La poesia è una parte, anzi dovrebbe essere la parte
migliore e quella più avanzata nel rimandare i temi e i problemi, nel
problematizzare cioè i temi della cultura contemporanea, che poi sono, oltre al
rapporto fra l'uomo e l'ambiente, il rapporto tra l'uomo e l'altro uomo.
Prendiamo questo esempio: la poesia potrebbe - partendo semplicemente da una
definizione, da una parola - spostare in avanti la comprensione e la coscienza
delle infinite complicazioni della realtà, per cui già appena tu parli, ti
mostri e mostri il tipo di considerazioni che hai dell'altro e degli altri.
Quindi questa estrema sensibilità linguistica propria della poesia potrebbe
essere molto utile per tutti, anche in un ambito non poetico. La cosa che
interessa di più oggi è non chiudere la poesia dentro la poesia. Questo
sarebbe l'errore più grave, poiché la poesia è già un ghetto. Se poi
all'interno della poesia continuiamo a riproporre il discorso dei poeti... I
poeti dovrebbero entrare in corto circuito con il reale, con il sociale, con gli
altri e quindi porre dei problemi, scandalizzare anche il senso comune. Ma
questo, naturalmente, come può farlo il poeta? Non certamente facendo il
comizio: lo fa scrivendo. Egli non deve rinunciare allo specifico del linguaggio
poetico, della ricerca e di una elaborazione che costa molta fatica. Baudelaire
diceva che la medicina per il poeta è il lavoro quotidiano, l'ispirazione è il
lavoro. Secondo me il poeta è un operaio (lo diceva Maiakóvsky) che invece di
lavorare alla fresa o al tornio, lavora il legno delle teste dure. Questa
concezione di Maiakóvsky adesso non va più di moda, perché comunista,
futurista. Ma Maiakóvsky ha scritto delle cose che sono fondamentali per capire
come il poeta elabora un testo, come nasce la poesia. Come il discorso sul fatto
che esiste in principio un ritmo, che è un ritmo non verbale, è un ritmo di
suoni o di accenti forti e che da questo ritmo il poeta estrae piano piano le
parole. Però adesso stiamo un po' saltando qua e là....
-
Si,
ritorniamo al nostro argomento. La poesia, secondo te, potrà salvarci da
questa dispersione di significati, da questa mancanza di senso che pervade
il mondo di oggi?
Tu
parli della mancanza di senso. Si, è vero, ma la poesia non dà anche il senso,
perché è la filosofia che dà il senso, la filosofia ha la pretesa di dare una
verità. La poesia da qualcos'altro: dà l'apertura del senso, che è diverso.
-
Ma
è anche una concentrazione di significati e proprio per questo la poesia ci
aiuta a ritrovare il senso delle cose...
Certo,
però ce lo pone come una domanda, ossia rispondendo, la poesia fa una domanda.
È un po' paradossale questo. L'apertura del senso non è il senso, è anche
l'ambiguità, la copresenza dei tempi e dei sensi. È polisemica la poesia, non
da un solo senso, come invece la filosofia o l'ideologia. La poesia ha questa
cosa che è un po' la sua dannazione ma anche la sua forza. Ossia è ambigua,
nel senso buono, forte, cioè non equivoca, ma ambigua. E c'è questa ambiguità
nella copresenza dei sensi o dei tempi. La poesia è quel qualcosa che non
afferma, che non nega, ma che significa. E questo "significa" è la
procura del senso, che non è nè l’affermazione nè la negazione, ma è il
dischiudersi del senso alla possibilità, alla complessità, alla grande
ambiguità dello statuto proprio antropologico, psicologico umano.
Per
esempio, quali sono le due grandi antropologie del nostro tempo? Sono la
psicanalisi e il marxismo e non se ne può fare a meno. Ebbene, di ciò che ha
senso a livello culturale, l'uomo che cosa ha imparato di più? A livello del
marxismo, certamente il concetto di equivalenza generale delle merci, che ci
pone il discorso della cultura come merce. E se anche la cultura diventa merce
nel nostro tempo, pure un libro di poesia è una merce perché ha una copertina
e un prezzo. Ma attenzione: quello che il libro contiene non è merce. Bisogna
saper distinguere e vedere come la poesia, per esempio, è quella merce
inconsumabile perché tu la leggi molte volte e non si consuma, è sempre lì.
Il libro quindi è una merce, ma ciò che il libro contiene non è merce e
dobbiamo attenerci a questo. Nella psicanalisi, d'altra parte, abbiamo il
concetto di rimozione. La poesia, in questo senso, sarebbe il ritorno del
rimosso di una cultura. E che cosa rimuove la cultura? Il sentire, perché si
fissa soltanto sul razionale, sul pensare, sulla logica del calcolo, come è la
tecnica. Invece la poesia è il ritorno di ciò che una cultura rimuove. E
siccome il rimosso è fisiologico e fisico, ecco che la parola ritmata, il
fiato, il metro, la misura è quel qualcosa di fisico, di corpo, che torna
dentro la cultura attraverso la sua forma di astrazione più assoluta, cioè la
poesia. Non è sorprendente? La poesia ha uno statuto del linguaggio che sembra
così formalizzato, per quello che comporta di conoscenza ritmica, metrica, e
invece essa è il luogo più naturale, è il luogo attraverso il quale il
naturale si riaffaccia nella cultura, nella forma di massima formalizzazione. A
me ha sempre interessato molto questo aspetto della poesia come il ritorno del
rimosso di una cultura. È certo che la poesia ha a che fare con la vita,
quindi. Ha a che fare con qualcosa che ci colpisce a partire dal sentire.
Tu
mi chiedi anche se al poeta può bastare l'impegno della sua arte. Io credo che
sarebbe importante già che i poeti parlassero, che dicessero quello che debbono
dire in questo tempo della comunicazione di massa in cui si spartiscono il
linguaggio a suon di miliardi. Che cos'è oggi la lotta attorno al linguaggio e
ai mezzi di riproduzione del linguaggio? Siamo nel tempo in cui il linguaggio
viene spartito perché esso è proprio un incredibile strumento di consenso e di
potere. E allora, al poeta oggi cosa spetta? Il compito di un nano contro i
giganti. È il compito di ricostituire quel tessuto di linguaggio antagonista, e
antagonista in quanto linguaggio che non parte dalla sua riproduzione tecnica ma
parte dal radicamento in un sentire che abbia a che fare con il pensare. E
questo nesso sentire-pensare ci riporta al discorso di prima, quello della lotta
per l'apertura del senso, propria della poesia. Mentre loro, i potenti, il
linguaggio se lo spartiscono, chiudendo il senso, la poesia è quel linguaggio
che non si può spartire nè si può possedere, ma che può aprire il senso, che
può arricchire. Sarebbe quindi già importante che i poeti oggi si impegnassero
nel linguaggio, ma veramente. Siccome nel linguaggio poi c'è tutto, che
parlassero di tutto, che non si chiudessero nel poetico, ma che si aprissero ai
temi. I poeti più interessanti, più grandi lo hanno fatto: Caproni, Pasolini,
Luzi, Bertolucci, Pavese, ce ne sono tanti in Italia. E poi magari poeti che
sembrano così legati al quotidiano, come per esempio Bertolucci, hanno in realtà
un messaggio di ricostituzione del tessuto antropologico, del passaggio
dall'Italia contadina all'Italia postindustriale, che è memoria storica, civile
e politica. Cioè la poesia è sempre storiografia. Il lavoro poetico è quindi
un lavoro impegnativo, importante. Ma il poeta può anche decidere di impegnarsi
fuori dalla poesia e scegliere magari di dire, non so, "io sono per
l'abolizione della legge infame sulla droga perché continua a criminalizzare i
giovani e non risolve il problema". Cioè il poeta può scegliere di
impegnarsi per una causa qualsiasi.
-
Che
cosa pensi della poesia italiana contemporanea? Quali sono le sue tendenze,
le sue linee di forza?
La
poesia italiana contemporanea è una grande poesia. Forse la maggiore poesia
europea oggi. Io lo penso perché non c'è nessun paese oggi in Europa, pensiamo
ad esempio alla Francia, all'Inghilterra, alla Spagna, che abbia tanti poeti -
anche molto adulti, attempati, anziani - ancora viventi. Cito Attilio Bertolucci,
Mario Luzi, Andrea Zanzotto, per non parlare poi della generazione successiva,
Giovanni Giudici o dei recentemente scomparsi Giorgio Caproni, Pier Paolo
Pasolini. Abbiamo già fatto sei o sette nomi e chiedo qual è quella
letteratura contemporanea che ha oggi un elenco così cospicuo di grandi nomi.
Noi abbiamo oggi effettivamente una grande poesia in Italia. Ossia, abbiamo
grandi poeti dai sessant'anni in su che continuano ad operare e altri
recentemente scomparsi che hanno lasciato una grande eredità.
Ma
non basta: esiste una valida poesia dialettale che è stata ripresa dall'inizio
degli anni settanta, da una generazione nata intorno agli anni trenta o poco
prima. Faccio i nomi di Franco Loi, Raffaello Baldini, Franco Scataglini, Tonino
Guerra, oppure degli scomparsi del primo novecento: Biagio Marin, Virgilio
Giotti, Delio Tessa. E quindi c'è non solo la poesia in lingua, ma un recupero
della poesia in dialetto, con un'altra valenza che non è più quella di una
poesia folclorica o di una poesia minore. È una poesia dialettale al pari della
poesia in lingua, poesia che ho chiamato neo-volgare e che ritorna a parlare,
così come la poesia in lingua, dei grandi temi e dei grandi problemi
contemporanei allo stesso livello di dignità. Perché il dialetto oggi non è
più solo una lingua della realtà in senso minore in cui si intendeva un tempo,
ma è una lingua della poesia. C'è stato pertanto un grosso cambiamento e un
fecondo scambio fra italiano e il dialetto. Per esempio, con la nostra rivista
Lengua, questo rapporto fra i giovani poeti e i poeti dialettali è stato molto
forte e molto istruttivo, perché al centro della poesia dialettale ci sono le
cose. C'è quindi un riagganciarsi a una poesia legata ai sentimenti forti della
presenza delle cose, e della memoria, che ha fatto scuola. E poi c'è la poesia
degli autori che rientrano nella categoria
"giovani" e che non mi sembrano affatto disprezzabili. Faccio i nomi
di Maurizio Cucchi, di Valerio Magrelli, di Vivian Lamarque, di De Angelis e
altri. Quindi, ci sono i maestri, c'è la nuova poesia dialettale e ci sono i
giovani autori.
Fra
le tendenze e le linee di forza della poesia italiana c'è, come ho detto,
questa della nuova poesia dialettale che un po' ha cambiato le carte in tavola.
Ciò presuppone anche che ci sia una revisione critica del Novecento, già
cominciata con Contini, con Pasolini, poi con Mengaldo e che sta venendo sempre
più fuori con altri critici. C'era bisogno di una revisione critica di tutto il
Novecento, che è stato grande sia in lingua sia in dialetto. Bisogna rivedere
un po' tutto. Altre linee di tendenza possono essere il neo-manierismo,
l'esistenzialismo, il realismo critico. Io mi riconosco in po' in quest'ultima,
che poi non è neanche una tendenza, perché sono un indipendente. Tuttavia,
direi che la cosa più importante è cercare di superare quella vecchia poesia
delle parole, dell'enfasi o mitologica, che tuttora esiste. Io qui non faccio
nomi, anche perché sarebbe sgradevole farlo. Un grande poeta cecoslovacco
diceva che è il poetico che uccide la poesia. Questa è la vera questione:
occorre capire che la poesia non la si fa con le parole, ma la si fa con le
cose, con le emozioni, con le esperienze, e che senza tutto ciò non esiste
poesia.
-
Ma
Mallarmé diceva il contrario, cioè precisamente che la poesia si fa con
parole...
Mallarmé
infatti è il capostipite di quella poesia di parole che è stata poi imitata e
ripresa, in tutta la sua forma di estrema astrazione e sintesi, nel Novecento.
È una grande poesia, però è una poesia che può suonare anche a vuoto e non a
caso il suo tema di fondo è il vuoto. Ora, Mallarmé diceva anche che il mondo
esiste per diventare libro. Io non sono d'accordo per niente. Il libro esiste
per diventare mondo per me. Cioè, è proprio una trasfusione contraria, in
direzione contraria. E questa direzione antisimbolista, poesie di cose e non di
parole, è in Italia quella pasoliniana. I due grandi poeti del Novecento, più
precisamente nello snodo tra il primo e il secondo Novecento, sono da una parte
Montale e dall'altra Pasolini, che infatti cozzano fra loro. Però è da questo
urto che forse potrebbe nascere qualcosa di nuovo. Ci sono poeti che ho amato
molto, come Umberto Saba, Giorgio Caproni, Sandro Penna, che sono di una linea
antisimbolista, per cui ciò che conta è il significato espresso ed esplicito e
il rapporto fra la parola e la cosa, senza interdizioni, senza fingimenti. È
chiaro che tutta la poetica novecentesca invece è fondata sull'oscuro, è
fondata sull'enigma. Mallarmé fa testo. Io ho anche tradotto qualcosa di
Mallarmé, non è che lo rifiuti: ha una poesia stupenda. Però certamente
preferisco Baudelaire e non lo leggo da un punto di vista parnassiano, o gelido,
o freddo. Mi piace invece il Baudelaire caldo, il Baudelaire cosiddetto
romantico. E in Italia mi piace quindi questa linea Saba-Pasolini, questo tipo
di poesia come romanzo psicologico e romanzo intellettuale. Però non è che
rifiuti Montale completamente. È una poesia che non amo come le altre, anche se
il primo Montale, di Ossi di Seppia e Le Occasioni, mi piace. Il dopo mi piace
un po' di meno, perché mi sembra che egli giuochi un po' troppo. Ma questi sono
gusti. Poi, a livello critico invece bisognerebbe, come ho detto prima, fare una
seria revisione critica di tutto il Novecento. L'abbiamo appena cominciata. La
nuova generazione deve fare questo lavoro.
Vera
Lúcia de Oliveira, Perugia, 7 marzo 1992