Intervista a
Mario Luzi
fatta il 10/10/1991 da
Vera Lúcia de Oliveira
(Maccherani),
(nell'ambito di "Poesia a Palazzo
dei Priori" del Merendacolo di Perugia e pubblicata
su
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Revista da APIESP - Associação de Professores de Italiano do Estado de
São Paulo, Insieme, n.3, San Paolo, Brasile, 1993, pp.91-95
- Rivista Campi immaginabili n.9/10, Marra, Cosenza, 1994,
pp.121-122)
Incontriamo
Mario Luzi in un freddo pomeriggio d'autunno, a Perugia, splendida città
etrusca, fra le più propizie a questo salto nel poetico per le sue
atmosfere d'altri tempi, le vie strette in cui la storia piano piano ha
modellato in mattoni e pietra il volto del presente. Con voce bassa,
affaticata, il poeta ci conduce ad un breve ma intenso viaggio dentro la
sua poetica, all'interno di quel mondo insolito nel quale le
parole cercano il momento della rivelazione della cosa e la cosa cerca
il demiurgo, il poeta capace di illuminare il suo istante di esistenza.
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In
una intervista lei ha affermato che la poesia oggi torna ad essere
necessaria al mondo, ossia torna ad avere un ruolo importante nella società.
Allo stesso tempo, però, constatiamo che le persone leggono sempre meno
poesia e che la società civile, politica, non riconosce nessun ruolo al
poeta. Come superare questo scarto, come il poeta potrà rivelare, e a chi,
questo terribile momento di alienazione che tutti viviamo, momento di
violenza, di allontanamento dell'essere da sé stesso? Che cosa potrà fare
il poeta?
La
poesia che è stata per molto tempo un po' celebrativa e cioè laudativa
dell'esistente, oggi, dopo circa un secolo di conflittualità, si è assunta
l'incarico, il ruolo di organizzare il caos nel regime costante della nostra
storia. In altre parole, di riconoscere il caos e anche, perché lo riconosce,
di ordinarlo e di esprimerlo. Questo mi pare che sia un potere che la
poesia ha e che esercita per natura o per vocazione. Alcuni poeti sono più o
meno coscienti di questa facoltà concessa alla poesia e agiscono più o meno
coerentemente con questa consapevolezza.
Quanto
poi alla rispondenza del pubblico che lei lamenta insufficiente, è vero che si
legge forse sempre meno, ma si legge meno poesia come si legge meno qualunque
altra cosa. Cioè si è sostituita una lingua convenzionale, comoda, più che
altro visiva, alla vera interpretazione e valutazione del linguaggio. Però se
è vero questo, è vero anche che chi legge poesie o scritture attuali sente di
essere chiamato a qualcosa, sente di non essere intrattenuto gratuitamente,
almeno nei veri scrittori. Essere chiamati a qualcosa, cioè a una lettura, a
una interpretazione reale di tutto quello che viene proposto. Ed ecco la
contraddizione. Il poeta oggi ha una scarsa importanza, è in fondo una figura
che non ha il prestigio sociale che poteva aver avuto nel passato, quando in
fondo non faceva nulla di utile. E oggi, che credo che il poeta sia utilissimo,
necessario a riconnettere con l'umano quello che si è disperso, il poeta non ha
un ruolo, non ha un posto nella società come tale, come poeta, come lo ha il
banchiere, il professore. Ma questo è uno dei paradossi della nostra epoca, per
cui più una cosa è necessaria, meno è apprezzata.
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La
poesia sarebbe pertanto il linguaggio dell'essenzialità, della
discesa nella profondità di esseri e cose. Ma come può la lingua,
creazione umana, cogliere questa complessità dell'universo, la metamorfosi
continua di tutto? Non ci sono dei momenti in cui sente la limitazione
frustrante delle parole?
Si,
la poesia è il linguaggio dell'essenzialità ed è vero che la metamorfosi, il
mutamento, possono portare le cose lontano dalla loro genuina essenzialità.
Però nel loro mutamento, nella loro trasformazione le cose autentiche, le cose
vere, passano per quella fase essenziale da cui sono emerse originariamente e
allora anche questa difficoltà, che lei giustamente afferma, che ha la parola,
che hanno gli scrittori che credono, che sentono la pulsazione di un linguaggio
inadeguato, anche questa difficoltà finisce per essere in un certo senso
superata. C'è un momento in cui si ristabilisce una coincidenza fra la
cosa e la parola, fra la verità, la sostanza, e il nome. E allora la
convenzione, la civiltà, questa scorciatoia dei segni convenzionali viene
superata. C'è questo momento ed è un momento poetico.
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È
il momento del miracolo?
Si,
é proprio il momento del miracolo.
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In
una sua conferenza, a Napoli, lei ha affermato che "la nascita di una
parola esige l'uccisione sacrificale di altre parole divenute inservibili
per usura ed estinzione di significato". Per lei allora il poeta oggi
è una specie di sacerdote che ha il dono e la missione di rimettere in
contatto cose e parole vive?
Non
oggi, sempre. Ma non occorre solenizzare a tal punto il suo ruolo. La sua
funzione è oggettivamente quella: e lo è anche a livello artigiano.
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In
questo fine millenio, il poeta può ancora avere un ruolo nella società? Ma
che cos’è il poeta? Una voce discordante, un profetta del futuro?
Sì,
ce l'ha, è poco evidente ma molto concreta. Si combatte una grande partita tra
la persistenza di valori che credevamo l'umano, l'irrinunciabile e le tentazioni
di una ab-umanità tecnologica invadente. Drammatizzare questo conflitto e
umanizzare questo trapasso spetterà, penso, soprattutto alla poesia.
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Quali
progetti ha in questo momento?
Vorrei
fare ancora qualcosa per il teatro. Ma a un certo punto è la vita nella sua
umiltà quotidiana il solo regista.
Vera
Lúcia de Oliveira, Perugia, 10 ottobre 1991