Intervista a
Franco Loi
fatta l'11/11/1990 da
Vera Lúcia de Oliveira
(Maccherani),
(nell'ambito di "Poesia a Palazzo
dei Priori" del Merendacolo di Perugia e pubblicata sulla
Revista da APIESP - Associação de Professores de Italiano do Estado de
São Paulo, Insieme, n.7, San Paolo, Brasile, 1998-1999,
pp.36-42)
Franco
Loi, nato a Genova nel 1930, vive a lavora a Milano dal 1937. Ha collaborato con
diverse riviste e vinto importanti premi letterati. Le sue poesie sono state
tradotte in Russia, Cecoslovacchia, Olanda, Spagna, Romania, Portogallo.
Pubblica il primo libro solo nel 1973, I cart (Edizioni Trentadue).
Seguono le raccolte: Poesie d'amore (Edizioni Il Ponte, 1974), Stròlegh
(Einaudi, 1975), Teater (Einaudi, 1978), L'aria (Einaudi,
1981), L'angel, I parte (San Marco dei Giustini, 1981), Lünn
(Edizioni Il Ponte, 1982), Bach (Scheiwiller, 1986), Liber
(Garzanti, 1988), Memoria (Boetti & C., 1991), Umber
(Piero Manni Ed., 1992), Poesie (Fondazione Piazzolla, 1992), Arbur
(Moretti & Vitali, 1994), Alice (Edizioni Il Gatto dell'Ulivo,
1996), L'Angel, in 4 parti (Mondadori, 1996).In prosa ha
prodotto Dieci racconti (ICI Milano, 1986), Diario breve, scritti
sulla poesia e sulla letteratura (Edizioni Cip, 1995), oltre a innumerevoli
saggi.
La
vena polemica del poeta traspare in questa intervista che spazia sulle più
attuali questioni della vita italiana, una vena polemica che segna l’approccio
del poeta al mondo e alla storia. La sua è una voce forte, caratterizzata, come
afferma Giacinto Spagnoletti, da “una violenza rappresentativa che non ha
eguali nella poesia d’oggi, in lingua e in dialetto.”[1]
-
Che
cos'è per te la poesia, tu che hai scritto in un verso di L'Aria: "si
scrive perché la vita sia più vera"?
Quel
verso ha significati molteplici. Per me, e non so per altri, lo scrivere è
insieme conoscere e conoscersi di più. Sembra quasi che la parola scavi dentro
di noi, togliendo incrostazioni e impedimenti di varia natura sino ad agevolare
il rapporto tra la nostra coscienza e la memoria inconscia - che è memoria del
corpo, delle emozioni e dei pensieri che tutto il nostro essere elabora
indipendentemente dalla nostra consapevolezza. E in questo senso ci aiuta ad
avere un rapporto più vicino alla verità, sia con noi stessi, sia con il
prossimo, sia con le cose e la natura. Quindi a rendere la vita più vera.
La
poesia, che è insieme parola significante, musica e ragione, è la forma di un
nostro modo di essere spesso ben oltre quanto presumiamo di noi. Ma è anche
l'unica possibilità di vero dialogo con l'altro, giacché coinvolge
l'ascoltatore nella comune ragione e nella comune emozione oltre gli impedimenti
caratteriali e ideologici.
Un
mio caro amico, Davide Bracaglia, ha scritto: "Non è che il dono
prometeico di una scintilla comune di verità condivisa sul piano creaturale.
Poesia non è tanto, o solo, forma, contenuto, simboli o immagini, non tanto
un'etica o un'identità, quanto un'elargizione, senza attendere nulla in cambio,
di se stessi. Poeta è chi si offre, da guarito, per la salute di ogni lettore,
di ogni altro uomo-poeta". E per guarigione, credo che il mio amico intenda
il rinnovato rapporto con la vita, con l'amore, con la verità. Infatti quando
il mio amico dice "guarire dalla letteratura", vuol dire emanciparsi
dalle menzogne della mente, dai pregiudizi, dagli ostacoli di varia natura che
frapponiamo ai nostri rapporti con gli altri (e con noi stessi). Dobbiamo
rendersi conto che la mente è menzogna nel suo orgoglio di dominare la nostra
persona e la nostra vita, di farci credere che l'immagine che abbiamo di noi sia
vera. La poesia smaschera questa menzogna, rivela oltre la persona (la maschera)
un volto diverso e non sempre piacevole di noi. In questo la poesia rende vera,
vicina alla verità la nostra presenza nel mondo.
-
Hai
pubblicato il primo libro solo nel 1973, ma quando hai cominciato a
scrivere?
Avevo
9 anni quando ho preparato per un gruppo di amici una riduzione teatrale dei
"Tre moschettieri" di Dumas. Sapevo già leggere a 4 anni, quando mia
madre mi regalò due libri alla Fiera di Sant'Agata a Genova.
A
scuola ci facevano scrivere le "cronache" al posto dei
"temi" e ricordo che a 16 anni, mentre tornavo in bicicletta dallo
Scalo Merci di Milano Smistamento dove lavoravo, ebbi un gran sconforto per la
perdita di un pacco di miei scritti che portavo nel portapacchi dietro il
sellino.
Non
ricordo periodi della mia vita che non siano intrecciati allo scrivere. Così
scrissi versi per la pace che avevo 17 anni e liriche d'amore quando
m'innamoravo - tutto in italiano. Cominciai invece a scrivere poesie in milanese
quando nel 1965 mi capitò tra le mani la raccolta dei Sonetti del Belli. Il
Vigolo dice che la stessa cosa capitò all'arcade Belli, quando a Milano fece la
conoscenza con la poesia del Porta. Posso dire con ironia che è una specie di
scambio o remunerazione storica.
Per
me, comunque, non si "comincia a scrivere" - è illusione degli
sperimentali, che intendono lo scrivere come una costruzione mentale o una
"produzione letteraria". Credo che scrivere sia, almeno per me, così
"insieme" alla vita e nello stesso tempo così lontano, da non esserci
inizio - io non ne ho memoria precisa. È un modo di essere ed è un modo di
capire, e questo lo si fa sin dalla nascita. Non c'è poi molta diversità tra
la consapevolezza di un bimbo e quella di un adulto. Spesso l'adulto si
allontana dalla consapevolezza di sé per costruirsi una realtà rassicurante e
conformistica. Ripeto che lo scrivere è comunque un mezzo per recuperare
consapevolezza di sé. Quindi, non ha inizio. Quando vado nelle scuole chiedo
sempre: chi scrive? E più si va indietro nell'età e nel tempo e più numerosi
sono quelli che scrivono. Dunque si dovrebbe semmai chiedere: quando si smette e
perché? Cioè capire che il "non scrivere" è una perdita.
-
Con
la scelta di scrive poesie in milanese, hai cercato di ridare dignità al
dialetto che in Italia è stato per molto tempo la lingua degli umili, delle
classi meno privilegiate. Quello che usi però è un dialetto un po'
particolare, nel quale confluiscono elementi di altri dialetti, come lo
stesso genovese natio o l'emiliano. Che cosa rappresenta per te questa
lingua che è stata definita come una "lingua privata"?
Non
ho scelto il dialetto. Qualcuno ha scritto che "il dialetto ha scelto
me". E non ho cercato di "ridare dignità al dialetto", che ne ha
già una sua, grande, nell'uso e nella storia popolare. C'è una significativa
serie di sonetti di Carlo Porta sulla "dignità e il valore" del
dialetto. Semplicemente, quando, per un motivo estetico, mi son trovato a dar
voce a un giovane soldato milanese - che non potevo far parlare in italiano - ho
capito due cose: di aver dentro di me il milanese aldilà della mia
consapevolezza; e ho capito di aver dentro di me la poesia, cioè questa strana
connessione tra suono, contenuti ed emozioni.
Che
poi la mia lingua non sia "privata" mi sforzo inutilmente di dirlo da
anni. Certo, in un altro senso la lingua di ogni poeta è privata. La gente non
ha mai parlato la lingua di Leopardi o di Dante. È successo, semmai, che la
gente ha capito la ricchezza della lingua dopo aver letto Dante o Leopardi. È
tanto poco privata che spesso versi interi delle mie poesie sono raccolti dalla
parlata popolare. per non parlare dei tanti neologismi o di alcune espressioni.
Qual è del resto il confine tra pubblico e privato in un poeta e in una poesia?
Viviamo la cultura degli uomini e viviamo in mezzo agli uomini. Anche volendo,
non c'è niente che sia completamente privato. Il milanese rappresenta semmai la
mia vita e la mia storia in Milano, mentre il colornese rappresenta l'amore per
la lingua e la terra di mia madre, e il genovese la memoria della mia prima
infanzia a Genova e della lingua di mio padre.
Le
classi privilegiate milanesi, un tempo, parlavano milanese. Non si deve
dimenticare che all'unità d'Italia (1870) soltanto il 2,3% degli italiani
parlava italiano, e che soltanto dopo gli anni '50, per l'avvento della
televisione, l'italiano è diventato lingua della maggioranza. Gli italiani
ricchi non hanno mai parlato il toscano di Dante, ma quello scolastico. La
lingua del potere politico non è del resto mai una lingua poetica. Occorre
dimestichezza con la comunità e con lo Spirito che gli uomini di potere non
hanno mai avuto, almeno dalla rivoluzione francese in poi. Una volta che si
capisce la poesia come "offerta di sé" e forma di una verità
sconosciuta, si capisce anche la menzogna nascosta nella contrapposizione
lingua-dialetti. La verità, come il dono, sono indifferenti alla lingua.
Leopardi scrive nello Zibaldone che occorre star vicino al popolo che parla
perché "è più vicino alla natura e privo di logica" - io traduco
dalla imposizioni della mente. E Dante parla di poesia come lingua materna - non
in quanto della madre - ma delle origini, cioè delle Spirito.
Dunque
per me la lingua è un tramite alla verità e alla conoscenza, una voce di me,
della gente che ho conosciuto, che ho amato e mi ha amato,
dei luoghi in cui ho
vissuto, ma anche della cultura mondiale che ho avvicinato - dico spesso che
forse, oltre Salgari e Verne e la fisica di Einstein e il Corriere dei
Piccoli e Socrate e Kant, anche Shakespeare, Dostoevskij, Cervantes e
Drummond de Andrade hanno contribuito con Dante, Belli e Carlo Porta, a
risvegliare la mia voce.
-
Che
senso ha scrivere in dialetto oggi in Italia? Non si rischia, con questa
scelta, di contribuire in qualche modo a minare ancora di più la già
fragile unità italiana?
Che
c’entra “la fragilità dell’unità italiana” con il dialetto in poesia?
L’unità non è una questione di lingue ma di coscienze. Viene prima la vita
poi la lingua. Si sta insieme e si parla una lingua comune quando si comprende
che siamo figli di una stessa matrice, che ogni uomo è il suo prossimo, che
l’altro è come noi nel profondo di se stesso, quando si capisce che ognuno
deve saper sacrificare qualcosa nel rapporto con l’altro. L’unità
d’Italia è in pericolo sin dagli inizi, perché è stata un’unità voluta
dalla politica internazionale - gli interessi inglesi e francesi contro
l’Austria - ed è stata sin dagli inizi supremazia di una regione (il
Piemonte) contro le altre regioni, o almeno senza tener conto della volontà dei
popoli italiani, e, soprattutto, l’imposizione di una lingua di minoranza
potente (il becero toscanismo di Manzoni) 2,3% nel 1870 contro le lingue parlate
(lombardo, veneto, ligure, napoletano ecc.) dal 97,7% degli italiani.
L’italiano
si parla a maggioranza solo oggi. E non per una questione di “unità” o di
“comuni interessi” ma per la diffusione televisiva. Ed è un italiano
povero, inespressivo, del tutto adeguato alla finta unità e allo stato attuale
delle coscienze. Non vedo proprio come l’uso o l’apprezzamento del dialetto
possa incrinare l’unità nazionale. È semmai vero, come scriveva il grande
linguista Graziadio Ascoli, che l’unità italiana e l’accesso ad una lingua
nazionale non può che avvenire attraverso la conservazione e la crescita delle
varie lingue regionali. Se la lingua è legata alla coscienza degli individui,
come si può immettere una vera coscienza nel patrimonio nazionale negandone le
lingue? L’Ascoli diceva: si parla meglio italiano insegnando ai popoli a
leggere e scrivere nei loro dialetti. Ne è prova la ricchezza della narrativa
italiana, che ha fatto largo uso dei dialetti in ogni epoca: dal siciliano del
Verga, al triestino di Svevo, al piemontese di Fenoglio e Pavese. La gente crea
lingua mentre vive e lavora. Non si può imporre una lingua dall’alto.
Se
c’è semmai un segno della decadenza, non solo dell’unità della nazione, è
nella perdita continua della creatività, semiscomparsa dell’artigianato e del
lavoro manuale - e nell’aumento della passività umana nella produzione e
nella disattenzione del centro alle periferie. La gente non attiva le proprie
facoltà inconscie, diminuisce l’attenzione a sé, alla natura, alle materie,
all’importanza dell’altro. I dialetti scompaiono, e l’italiano diventa
burocratico e impoverito. La gente non inventa più la lingua. Qui è la radice
dello sgretolamento, della dissoluzione. È lo Spirito che dà sapore al pane,
come diceva l’antica sentenza.
Diceva
un mio traduttore portoghese, “è più facile che c’intendiamo in milanese
che in italiano”. E io correggo dicendo: ci si intende in dialetto, in
italiano e in inglese quando l’amore ci porta alla comprensione reciproca.
-
Come
si pone il poeta in rapporto al proprio tempo? La poesia è testimonianza
storica, è partecipazione civile? O è visionarietà, è capacità di
andare oltre la realtà apparente delle cose, di poter scorgere, l'al di là
delle limitazioni e contingenze quotidiane, il senso più profondo della
vita e anche della morte?
Lo
sappia o non lo sappia il poeta è nel proprio tempo. Ma qual è il tempo? Per
me è contemporaneo Dante, ed è mio contemporaneo anche Platone. Dunque il
tempo è l'arco di una civiltà. Come scriveva qualcuno "un europeo d'oggi
è cristiano anche quando non lo sa", e aggiungo anche quando non lo vuole.
Ma cos'è il cristianesimo, se non la faccia ebraica di una religione e di una
cultura ancora più antiche? Allo stesso modo non si può non avere
partecipazione civile. Viviamo nella città e, in modo attivo o passivo, ne
partecipiamo il destino. È la divaricazione degli interessi economici, con
tutte le loro facce ideologiche e culturali, che scinde la città e quindi le
vicende umane. Il poeta non è fuori da questa vicenda storica.
Sicuramente
non si comprende la funzione della poesia, se non si comprende anche la sua
natura politica. Il che non significa un uso della poesia, ma un'accettazione
della più profonda essenza della poesia. Rivelando all'uomo ciò che non
conosce e non sa, di sé, della natura, del mondo, la poesia rivela alla società
una presenza al di fuori delle ideologie, delle dottrine, delle culture
intellettuali. La proposta del poeta è dunque proposta incessante di un uomo al
di fuori degli schemi culturali. La cultura ufficiale di una città è messa in
crisi dalla poesia e la città accresce la sua visione di sé e delle proprie
motivazioni sociali accogliendo la parola dissacrante del poeta. Voglio dire che
una società, nel più alto significato della parola, è quella che ascolta il
poeta. Accettare la poesia è accettare il diverso.
La
poesia e la religione non dicono mai: "Questo è il mondo". Ma semmai:
"Questo è il mio modo di essere nel mondo". La poesia, come la
religione, dice: "La conoscenza della mente non è sufficiente a disegnare
il mondo". Così l'apporto della poesia alla città è apertura verso il
possibile e verso l'altro da sé.
Il
senso più profondo della vita e della morte viene dall'uomo stesso. La poesia
è figlia dell'uomo, non è un'astrazione letteraria. La poesia è il modo in
cui l'uomo tiene vivo in sé e quindi nella città la verità dell'essere e del
vivere. la civiltà si misura appunto nell'accettazione che una città fa
dell'altro, dello sconosciuto, dello straniero, del diverso. Quindi della
poesia. I greci hanno dato tanto, eccessivo, spazio alla mente per paura delle
Erinni, cioè dell'imprevisto, dell'ignoto, di ciò che è "evento
improvviso e inaccessibile". La poesia è questo evento, questo ammettere
in sé e fuori di sé il mistero. E la morte e la vita sono congiunte nel
mistero dell'essere.
Le
limitazioni e contingenze quotidiane sono tali solo nella nostra mente,
nell'eccesso delle paure, nel bisogno di sicurezza, nelle mancanze d'amore. Il
desiderio è l'ombra della morte. Come dice Dante, nel "desìo" c'è
il segreto dei nostri bisogni più profondi. Ma noi abbiamo
"passione", cioè diventiamo passivi nel desiderio e confondiamo il
desiderio col fine. Crediamo che le cose e le persone o le situazioni desiderate
siano lo scopo di ogni nostro desiderio. Perciò siamo sempre delusi quando
otteniamo ciò che riteniamo di volere. La città apparente è quella che ruota
attorno ai desideri, la città reale è quella che guarda più in là. La poesia
richiama dunque incessantemente la città allo sguardo. Questo è il compito
politico della poesia. È come se qualcuno guardasse soltanto da un lato e lo si
prendesse per le spalle e gli si mostrasse l'altro lato. Così la poesia allarga
alla visione.
[1]
Giacinto Spagnoletti, Storia della Letteratura Italiana del Novecento,
Newton, Roma, 1994, p.800
Vera
Lúcia de Oliveira, Perugia, 17 maggio 1990