Intervista a
Giuseppe Conte
fatta il 12/05/1998 da
Vera Lúcia de Oliveira
(Maccherani),
(nell'ambito di "Poesia a Palazzo
dei Priori" del Merendacolo di Perugia e pubblicata sulla
Revista da APIESP - Associação de Professores de Italiano do Estado de
São Paulo, Insieme, n.8, San Paolo, Brasile, 2001, pp.74-77)
Giuseppe
Conte è poeta, romanziere, insegnante, pubblicista e critico letterario. Nato a
Imperia nel 1945, si è laureato in lettere moderne alla Statale di Milano nel
1968. Il suo percorso, scavalcando a ritroso tutta la modernità, riscopre le
tradizioni e i miti più antichi (Grecia primitiva) ed esotici (celtici,
amerindiani, orientali). Ha pubblicato le raccolte poetiche Il processo di
comunicazione secondo Sade (Altri termini, Napoli, 1975), L’ultimo
aprile bianco (Guanda, Milano,1979), L’Oceano e il Ragazzo (Rizzoli,
Milano, 1983), Le stagioni (Rizzoli, Milano, 1988), Dialogo del
potere e del Messaggero (Mondadori, Milano, 1992). Le opere narrative sono: Primavera
incendiata (Rizzoli, Milano, 1980), Equinozio d’autunno (Rizzoli,
Milano, 1987), I giorni della Nuvola (Rizzoli, Milano, 1990), Terre
del mito (Mondadori, Milano, 1991), Fedeli d’amore (Rizzoli,
Milano, 1993), L’impero e l’incanto (Rizzoli, Milano, 1995). Fra le
opere di saggistica, citiamo La metafora barroca (Mursia, Milano,
1972), La metafora (Feltrinelli, Milano, 1981), Manuale di poesia
(Guanda, Parma, 1995).
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Si
sente nella sua poesia il fascino per altri popoli, altri mondi, un’ansia
di uscire, di viaggiare, di avere esperienze a diretto contatto con la realtà
mutevole del mondo. E c’è un’attenzione particolare per la tradizione
religiosa, letteraria, culturale dell’Oriente, soprattutto quella del
mondo islamico. Come nasce questa passione dalla quale si alimenta la sua
opera?
La
mia passione per altri popoli e altre civiltà antagonistiche rispetto a quella
occidentale nasce nel cuore degli anni Settanta, mentre stavo scrivendo
L’ultimo aprile bianco, e nascono dalla consapevolezza dell’inaridirsi
delle fonti di ogni vitalità creativa nella nostra letteratura e dai primi
segni della morte della natura, attaccata dall’uomo bianco, svuotata di ogni
sacralità e di ogni energia divina.
All’inizio
mi sono appassionato alle civiltà cosmiche e solari, come D.H. Lawrence, il mio
maestro di allora, agli Etruschi magici e solari sconfitti dal pragmatismo
militaristico dei Romani, agli Aztechi distrutti dagli Spagnoli, agli Indiani
d’America cancellati in un genocidio dagli anglosassoni... Poi il mio sguardo
si è rivolto alle radici celtiche della nostra Europa, anch’esse celate e
cancellate, e all’Oriente mistico e pieno di Dio... Ho sempre avuto bisogno di
movimento e di viaggi. La mia inquietudine, la mia disperazione trovano nella
dimensione del viaggio una possibilità di lenirsi, di trasformarsi in slancio
amoroso e vitale. Il mio viaggio in Oriente comincia dal Taoismo, poi prosegue
con l’Induismo e infine approda alla mistica Sufi, che è turca, araba e
persiana. Ho fatto viaggi che sono stati pellegrinaggi verso i maestri che ho
scelto: sono stato nelle Montagne Rocciose alla tomba di Lawrence, sormontata da
quella piccola bianca fenice, sono stato a Shiraz, alla tomba di Hafis, il più
dolce tra i poeti mistici dell’Oriente.
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Quali
sono i poeti, gli scrittori, gli artisti che l’hanno influenzata?
Shakespeare,
Baudelaire, Eliot, D.H. Lawrence, Henry Miller nell’adolescenza; i canti dei
primitivi, il giovane Montale, Sbarbaro, i romantici inglesi e tedeschi,
soprattutto Shelley e Goethe, Foscolo, Whitman, Borges, che considero il maggior
poeta della seconda metà del secolo. Pavese e Pasolini hanno avuto una
influenza appena accennata. Dickens e Hugo per il romanzo. Tra i musicisti,
Wagner e Scriabin.
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La
poesia per lei sembra essere miracolo, momento fugace di bellezza e di
mistero. Allo stesso tempo ha affermato in “Il segno della malattia”:
“Così invece di prendere / vergini, navi, cavalli, terre, sanguini / sui
fogli e contro il cielo”[1]. Come si può conciliare
questa contraddizione? Che mistero è mai la poesia che contiene in sé sia
la gioia che il dolore?
La
poesia contiene in sé l’oscillazione eterna tra gioia e dolore, tra piacere e
sofferenza in cui si manifesta l’essenza stessa del nostro essere uomini e il
mistero della nostra presenza tra gli altri esseri sul pianeta. Goethe se ne
accorse quando si domandò in quel verso supremo: “Perché tutto questo dolore
(Schmerz) e tutto questo piacere (Lust)”?
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Lei
ha affermato in una poesia “L’Italia è la mia lingua madre”. Mentre
assistiamo ad un tentativo di recupero da parte di molti poeti dei dialetti
- lingue locali, lingue regionali - lei esprime invece un senso di
appartenenza ad una comunità che viene identificata come la lingua madre.
Fernando Pessoa, al contrario, ha affermato: “La mia patria è la lingua
portoghese”. Questa difficoltà ad identificare l’italiano come lingua
madre viene dal complesso e frastagliato panorama linguistico che ancora
oggi caratterizza questo paese?
Quando
ho scritto “l’Italia è la mia lingua madre” volevo in realtà esprimere
la mia totale disaffezione al mio paese natale tranne che alla sua lingua:
l’unica cosa che mi importa dell’Italia è la sua grande tradizione
artistico-letteraria, l’unico legame vero che ho con lei è la lingua che
parlo e in cui soprattutto scrivo, l’unica cosa di cui ho nostalgia quando
passo lunghi periodi all’estero. La lingua è la madre, la lingua è il
rapporto con una comunità, la tradizione poetica di quella lingua la mia casa,
dove abito tra Dante e Petrarca, Tasso e Alfieri, Leopardi e Foscolo... Questo
naturalmente non mi ha impedito di viaggiare in altre lingue e in altre
tradizioni, amandole tutte, in una piena adesione al concetto goethiano di
Welt-literatur.
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Come
vede la sua opera in rapporto alle esperienze precedenti, soprattutto i
Novissimi, alla quale essa sembra porsi in posizione del tutto autonoma e
persino antitetica?
Quando
mi sono affacciato alla cultura contemporanea, studiando alla Statale di Milano
negli anni Sessanta dopo gli anni torbidi e felici, astorici, pieni di sogni,
trascorsi in un Liceo della provincia ligure, i Novissimi, il Gruppo 63,
Sanguineti ed Eco dominavano la scena. Per un po’ li ho studiati e imitati.
Ero allievo di Dorfles, e il mio aggiornamento sulle avanguardie internazionali
è stato completo... Poi però mi sono ribellato alla cultura
dell’avanguardia, a quel misto soffocante di marxismo e freudismo, di
strutturalismo e neopositivismo logico: mi sembrava un nodo mortale, che
spegneva ogni creatività poetica. La mia ribellione fu fare tabula rasa e
tornare alle origini, al mito. Alla cultura del mito inteso come forma di
conoscenza primordiale, da cui ripartire per rimettere in moto la macchina della
creatività, del sogno, dell’utopia, della bellezza... Ho lavorato con un
maestro come Luciano Anceschi, ho fatto parte della redazione della rivista Il
Verri, quindi ho attraversato tutta l’avanguardia, e attraverso il ritorno
a un mito reinterpretato ne ho rovesciato i principi, sotto l’influenza di
pensatori come Hillman, Campbell, Eliade, Spengler, Junger... Così dai più
mediocri esponenti dell’avanguardia stessa ho avuto attacchi e insulti, altri
hanno creato intorno a me un clima di censura e di malevolenza...
Io
però non ho mai aderito a una visione tradizionalistica della cultura e della
letteratura, continuo ad essere con i miei libri, siano essi romanzi o raccolte
di poesia, uno sperimentatore di forme e un innovatore, un ribelle, mentre gli
ex avanguardisti sono diventati uomini di potere e nient’altro.
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Come
vede la poesia italiana oggi? Può tracciarne un panorama?
La
poesia italiana di oggi manca di grandi progetti di poetica, è di buon livello
medio, ma non ha elaborato una visione complessa e completa del linguaggio e del
mondo, non sente abbastanza il soffio del tempo e delle nuove esigenze
spirituali. Perciò si è avviata a un destino di ghettizzazione totale e di
penosa ininfluenza sulla realtà. Per mio conto, da anni mi sono ribellato a
questo stato di cose, sino alla creazione del Mitomodernismo. Ho sempre sentito
vicino Milo De Angelis, e poeti con cui ho intrecciato il mio percorso pur
nell’assoluta autonomia degli stili, e penso a Rosita Copioli, Tomaso Kemeny,
Mario Baudino, Roberto Carifi, Roberto Mussapi, o ai “neoantichi” Valentino
Zeichen, o Renzo Paris...
Tra
i più giovani, mi sembra che prendano rilievo i poeti della nuova rivista
Fare anima, Gabriella Galzio, Marco Marangoni, Danilo Bramati, Nicola
Ponzio, Lamberto Garzia... ricondotti dal crittico Giampiero Marano al
Mitomodernismo stesso.
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Si
sente nella sua poesia la ricorrenza del mito, che sembra avvicinarsi alla
stessa esperienza poetica e persino religiosa. Ma che importanza può avere
il mito oggi? Si può recuperare, in una società in cui domina il principio
egemonico della ragione, il rapporto autentico con la mitologia, quella
esperienza che Károly Kerényi ha definito come una grande realtà del
mondo spirituale?
Quando
parlavo di ritorno al mito negli anni Sessanta ero solo, a volte sospettato e
vilipeso. Oggi si è visto che il ritorno, la rilettura in chiave nuova del mito
è un fenomeno mondiale. L’importanza del mito è quella di una ribellione
all’esistente, al dominio della ragione economica, al materialismo
nichilistico, per cercare nuovi assetti dell’immaginario e nuove forme stesse
di vita sociale e di civiltà.
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Che
rapporto ha la poesia con la storia?
Un
poeta solitario, disperato, impotente canta il mistero del mondo, e nel suo
canto il mondo ricomincia, e cadono gli Imperi e nascono nuove forme storiche
del vivere associato. Quando Tamerlano il distruttore arrivò alle porte di
Shiraz, ordinò che la città fosse risparmiata perché lì viveva Hafis, un
poeta Sufi che per tutta la vita non aveva cantato che di rose, giardini, vino,
amore...
La
poesia, eternamente, ci protegge, senza fuggirne, dagli orrori della storia.
[1]
Giuseppe Conte, Dialogo del poeta e del messaggero, Milano, Mondadori, 1992,
p.92.
Vera
Lúcia de Oliveira, Perugia, 12 maggio 1998
(Giuseppe
Conte)
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