Intervista a Cesare Viviani
fatta il 21/11/1997 da
Vera Lúcia de Oliveira
(Maccherani)
,
(nell'ambito di "Poesia a Palazzo
dei Priori" del Merendacolo di Perugia e pubblicata sulla
Revista da APIESP - Associação de Professores de Italiano do Estado de
São Paulo, Insieme, n.8, San Paolo, Brasile, 2001, pp.78-80)
Cesare
Viviani è nato a Siena nel 1947 e vive a Milano dal 1972. Si è laureato in
giurisprudenza e in pedagogia, ha svolto per qualche tempo l’attività
giornalistica, per dedicarsi, a partire dal 1978, a quella psicanalitica.
I
suoi libri di poesia sono: L’ostrabismo cara (Feltrinelli, 1973),
Piumana (Guanda, 1977), L’amore delle parti (Mondadori, 1981), Summulae
1966-1972 (Scheiwiller, 1983), Merisi (Mondadori, 1986), Preghiera
del nome (Mondadori, 1990, premio Viareggio), L’opera lasciata sola
(Mondadori, 1993), Cori non io 1975-1977 (Crocetti, 1994), Una
comunità degli animi (Mondadori, 1997) e Il silenzio dell’Universo
(Einaudi, 2000). Ha pubblicato anche un romanzo, Folle avena (Studio
Tese, 1987), e le seguenti opere saggistiche: La scena (Edizioni di
Barbablú, Siena, 1985), Pensieri per una poetica della veste (Crocetti,
Milano, 1988), Il sogno dell’interpretazione (Costa & Nolan,
Genova, 1989).
-
Hai
cominciato nel segno del neovanguardismo, con L’ostrabismo cara e Piumana
passando poi, in altre raccolte, come L’amore delle parti, Merisi,
Preghiera del nome, L’opera lasciata sola, Una comunità degli animi e
Silenzio dell’universo, a ricomporre nuovamente il discorso in una ricerca
di chiarimento del segno. Come vedi questo tuo percorso? C’è, secondo te,
un asse portante che lega, in una linea coerente, tutte queste raccolte?
La
poesia è una, qualunque abito indossi, da qualunque linguaggio nasca. Così non
c’è mai problema di coerenza per la poesia e per chi scrive poesia, non ci
deve essere. Problemi di coerenza possono esserci, forse, per chi fa teoria.
E
poi bisogna intendersi sul significato di “coerenza”. Per molti
“coerenza” vuol dire facile riconoscibilità, facilità di individuazione:
dunque una coerenza molto manifesta ed esteriore che è più strumento utile per
il lettore che necessità profonda della scrittura.
La
coerenza ineliminabile della poesia è la sua necessità profonda di esperienza
estrema. Chi, invece, progetta di fare poesia o coltiva l’ambizione di farla e
vuole a tutti i costi essere poeta deve pure preoccuparsi di una coerenza
stilistica per evidenziare la propria identità.
Per
accennare al mio percorso, posso dire che credo di avere scritto sempre lo
stesso libro, e da L’ostrabismo cara a Silenzio dell’universo
è una sola l’origine della scrittura: è la parola che, uscita dall’inganno
dei significati e dall’illusione dei referenti, dice se stessa, solo se
stessa. Il lettore si trova di fronte una parola che dice prima di tutto la sua
separazione dal noto, dal definito e poi si rivolge all’Altro, Altro veramente
indefinibile.
-
Nel
libro Preghiera nel nome ci sono tanti personaggi, tante voci,
tanti discorsi frammentati, talvolta sconnessi. Sembra, come afferma lo
stesso titolo del libro, una preghiera, un’invocazione di aiuto, un dire
senza dire cose che fanno male, che feriscono, che talvolta le persone non
sanno gestire. Eppure, in Il silenzio dell’universo, l’eterno fugge
all’intelletto, non si può capire né nominare nella sua “luce
indicibile”. La tua poesia è forse è un tentativo di esprimere
l’indicibile? È sempre, e ancora, una preghiera?
È
vero, forse la parola della mia poesia è sempre stata un’invocazione, una
preghiera. Ma vorrei distinguere.
C’è
una richiesta di protezione e di aiuto che ogni sera sale dai nostri cuori
rivolta a Dio, un Dio inteso come un padre buono, un fratello maggiore, un
compagno soccorrevole, un Dio familiarizzato. E poi, invece, c’è un Dio a cui
non si può dire e di cui si può dire, a cui non si può chiedere, impensabile,
irrappresentabile.
Ora
la parola della poesia è quella che mette il pieno dell’affettività di
fronte al vuoto dell’universo.
-
Nel
tuo ultimo libro tu dici “Silenzio dell’universo / è lingua di chi si
è perso / e tutto ha lasciato, dato: / parola di chi è annullato.” Ma il
dolore dell’uomo, si può annullare, si può perdere in quel
”silenzio”? La creatura può comunicare, se non con il gemito, o con
qualche dolorosa parola di poesia il suo poco, il suo nulla?
Non
c’è dubbio: il dolore dell’uomo si perde nel silenzio dell’universo. Si
perde addirittura nel silenzio di un prato, di una piazza, di un giardino.
D’altra
parte l’attaccamento al dolore è uno dei legami più forti e duraturi: può
diventare anche una ricerca di sofferenza. Nella vita ci si può limitare ad
accettare ciò che è stato conosciuto e definito, valutato e stabilito. Oppure
si può iniziare un percorso di conoscenza oltre ciò che è già stato
acquisito. In questo caso è inevitabile la scoperta della propria pochezza: la
misura di sé non è più individuata rispetto a uno spazio ristretto, di
famiglia o di vicinato, in cui ancora ci si può sentire grandi, ma rispetto
all’universo, di fronte al quale inevitabilmente si è minuscoli. E questa è
la reale misura dell’uomo.
-
Hai
affermato che “in poesia ogni parola è un nome” e che “la
pronuncia dei nomi è sempre invocazione e preghiera”. Puoi commentare
queste asserzioni?
Sì,
in poesia ogni parola ha l’autonomia di un nome proprio, che appunto non
rimanda a significati o valori ma dice solo se stesso.
La
pronuncia di un nome, di un nome proprio, sembra contenere sempre un tono di
invocazione e preghiera: ma non tanto nel senso di una richiesta di aiuto,
quanto nel senso di un’invocazione all’esistente e alla sua fragilità.
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La
tua esperienza di psicanalista rientra nella tua poesia? Come conciliare
queste due attività? La poesia non è in un certo senso psicanalisi?
No,
l’umanità che incontro in analisi resta in analisi: non sono possibili – e
non sono etici – trasferimenti o utilizzazioni. È vero che le due esperienze
convenzionalmente sono considerate inconciliabili. Ma invece c’è ben più di
una compatibilità se l’esperienza psicanalitica non è ridurre il mistero, ma
imparare ad accettarlo.
Sono
profondamente convinto che la psicanalisi abbia in sé le necessità
dell’arte, e non quelle della scienza.
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Come
scrivi di solito? Sei metodico?
I
libri poematici (L’opera lasciata sola, Silenzio dell’universo)
sono stati scritti con una certa continuità, specialmente il secondo quasi
tutti i giorni. Gli altri, invece, nella massima discontinuità, e soprattutto
d’estate, in assenza di lavoro e di preoccupazioni quotidiane.
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Quali
poeti e scrittori ti hanno segnato?
Tanti
poeti e pensatori, ma sarebbe un elenco.
Voglio
qui limitarmi a ricordare due scrittrici, che hanno influito sul mio lavoro:
Amelia Rosselli e Cristina Campo; e alcuni autori da me ammirati, in qualche
modo assimilati e incontrati come amici: a cominciare, in ordine di tempo, da
Luzi, Gramigna, Raboni, Porta, fino a Giudici, Sereni, Zanzotto.
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Hai
pubblicato nel 1980 il libro I percorsi della nuova poesia italiana.
Ci puoi delineare brevemente le linee e le principali tendenze della poesia
italiana contemporanea?
Mi
limito a fare un’annotazione sulla “novità” della poesia italiana degli
ultimi trent’anni, una “novità” che ovviamente non riguarda l’essenza
della poesia, la quale è sempre la stessa, bensì il rapporto dell’autore con
il nutrimento culturale e con se stesso. Ecco, in questi ultimi decenni i poeti
si sono rivolti alla storia della letteratura e a tutta la cultura con
un’autonomia nuova e ammirevole, una libertà particolare anche rispetto a
qualunque possibile problema di paternità e di autorità.
Vera
Lúcia de Oliveira, Perugia, 21 novembre 1997
(Cesare
Viviani)
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Claudio Maccherani )