È
particolarmente benvenuto – in quanto primo studio di una certa
ampiezza, in italiano, su Sagarana
– il libro di Vera Lúcia de Oliveira, brasiliana di Cândido Mota
(Stato di San Paolo), poetessa di fama riconosciuta (ha appena ricevuto,
tra l’altro, il prestigioso premio 2005 per la poesia dell’Academia
Brasileira das Letras) e docente di Lingua e Letteratura Portoghese e
Brasiliana all’Università di Lecce. Vera Lúcia sceglie cinque (dei
nove) racconti di Sagarana e li
rilegge, con attenzione, con passione e con tutta la competenza resa
possibile dal patrimonio critico che si è accumulato nei quasi
settant’anni trascorsi dalla prima edizione del libro. Anche la sua
lettura di Sagarana, naturalmente,
non può prescindere dalle opere posteriori di Guimarães Rosa e si
addentra nei segreti dello stesso sertão
(vasto territorio del Brasile centrale, destinato prevalentemente
all’allevamento del bestiame) dei Campos
Gerais che è l’universo dell’opera di Guimarães Rosa.
Alla luce, appunto, delle opere successive, Sagarana
si configura più chiaramente. Nel 1946 i maggiori critici brasiliani
avevano espresso ammirazione per la già raggiunta maturità del libro di
un esordiente (cito, fra tutti, Antonio Candido, che lamentava la
difficoltà di parlarne: se ne potrebbe parlare, scriveva, soltanto usando
impressioni imprecise, come «capacità di raccontare» e «vigore
narrativo» e aggiungeva: «il mio amico e maestro Giuseppe Ungaretti
userebbe espressioni più dirette, invocando ragioni di ordine ormonale
[...], le uniche capaci di esprimere [una simile] forza
creativa»).
Una delle prime questioni che si posero era se si trattasse di un libro «regionalista»
o meno: si parlò immediatamente del carattere universale di Guimarães
Rosa, nonostante o forse proprio in ragione del suo legame radicale,
fortissimo e articolatissimo, con la specifica realtà
storico-geografica-sociale-linguistica del sertão.
Il titolo del libro fornisce una prima risposta alla questione: la
parola «Sagarana», che Guimarães Rosa inventa, unendo «saga», termine
che rimanda alle narrazioni epiche nordiche, e «rana», suffisso tupì
che significa «a mo’ di, alla maniera di», indica la doppia natura,
universale e regionale, della narrazione. E quindi, piuttosto che di
regionalismo, si è parlato di «realismo poetico» (Benedito Nunes). O si
è cercato di definire l’opera di Guimarães Rosa al di là di ogni
categoria: né realismo né soggettivismo, scrive Augusto de Campos, la
verità è che «Guimarães Rosa ci dà qualcosa di positivo e palpabile, che
si può mangiare, come direbbe Ezra Pound». Ma forse, allargando il
senso di un’espressione di Franklin de Oliveira, la definizione di tutta
l’opera di Guimarães Rosa come una manifestazione di «amore panico»
(per l’uomo e per il mondo) sarebbe ancora più felice.
I
caratteri di Sagarana si
definiscono meglio, dunque, nel quadro dell’intera produzione rosiana:
come momento preciso di una sequenza, tutta coerentemente diretta ad
approfondire e confermare le grandi passioni dell’autore: la lingua e il
sertão.
La
lingua, perché «lingua e vita sono una cosa sola: chi non fa della
lingua lo specchio della sua personalità non vive». «Amo la lingua»
– ha scritto Guimarães Rosa – «l’amo veramente, come se
fosse una persona». Una lingua ricchissima, onnicomprensiva e in costante
espansione, fondata sul portoghese-brasiliano del sertão
di Minas Gerais, che, nella misura in cui ha assimilato cinque secoli
di influenze forti e diverse, è più ricco e più flessibile del
portoghese del Portogallo – e d’altra parte, ancora secondo Guimarães
Rosa, conserva elementi arcaici del portoghese di cinquecento anni fa, in
quanto è parlato in un ambiente relativamente chiuso e isolato dal resto
del Brasile. In questa lingua si inseriscono prestiti, calchi, termini
eruditi e colloquiali, di origine indigena o europea, latinismi,
neologismi e termini dialettali, oltre a tutto il vocabolario botanico e
zoologico relativo al sertão, al
punto che – bisogna dirlo – la lettura non può non risultare
vagamente faticosa anche per il più erudito dei lettori. Le invenzioni
linguistiche – lessicali, grammaticali, sintattiche – di Guimarães
Rosa presentano analogie con quelle di altri grandi sperimentalisti, come
Oswald e Mário de Andrade, in Brasile, e, in ambito internazionale, Joyce,
Carroll, Rabelais e molti altri, ma anche grandi differenze, studiatissime
(si parla soprattutto di una certa dimensione orizzontale,
sovraindividuale, collettiva della lingua di Rosa, in opposizione per
esempio a quella verticale, dell’«individuo totale» – come scrive
Luciana Stegagno Picchio – di Joyce).
Il
sertão è l’ambiente delle
storie di Guimarães Rosa, perché nel sertão
– è ancora Rosa che scrive, citando Goethe – «si parla la lingua di
Goethe, Dostoevskij e Flaubert, perché il sertão
è il terreno dell’eternità, della solitudine, dove Inneres
und Ausseres sind nicht mehr zu trennen».
Il
silenzio, e quindi forse la solitudine, fanno parte anche dei suoi
progetti di auto-educazione personale. Cito da un quaderno di appunti di
Guimarães Rosa (inedito): «1) Combattere l’espansività in tutte le
sue forme. In modo generale, è necessario mantenere il silenzio. 2)
Dominare tutti gli impulsi. Non comunicare notizie, non trasmettere novità
(...). 7) Moderare tutti i movimenti espressivi e dare solo piccoli segni
di emozione, sorpresa, allegria, scontentezza, ecc.. Ogni gesto
disordinato, ogni segno di agitazione ci ruba qualcosa».
Nel
sertão il silenzio e una relativa
impenetrabilità nei gesti e nel comportamento sono norme di vita
determinate dalla solitudine e dalla prudenza: abitudini che favoriscono
naturalmente la concentrazione sul proprio mondo interiore, permettendo di
vedere lucidamente il mondo, trascendendo le apparenze. Anche per queste
ragioni il sertão si definisce
per Guimarães Rosa come il territorio privilegiato per la realizzazione
delle virtù eroico-ascetiche a cui tendono i suoi personaggi. In tale
logica anche gli animali, silenziosi e tendenzialmente impenetrabili, si
inseriscono nello stesso mondo spirituale dell’uomo (come nella
filosofia buddista), agiscono e sentono, hanno una vita interiore come gli
uomini. Nell’ambito di tale filosofia, la psicologia e il mondo
interiore degli animali, così come sono trattati da Guimarães Rosa,
assumono valenze profondamente poetiche. Tanto che Franklin de Oliveira ha
definito Sagarana addirittura come
un «trattato lirico di bovinologia».
La
filosofia di Guimarães Rosa, radicalmente eclettica (e nel suo
eclettismo, tipicamente brasiliana), accoglie Platone e Plotino, Bergson,
Kierkegaard, il Nuovo Testamento (Cristo), la tradizione neoplatonica e
ermetico-mistica, lo gnosticismo, l’induismo, l’Upanishad, lo
spiritismo, non disdegna nulla. «Appartengo a tutte le religioni, non a
una sola (...) e i miei libri sono come me». In Sagarana,
come dimostra Vera Lúcia, fra tutte le influenze predomina quella delle
parabole evangeliche (ma aggiungerei le curiose indicazioni di Suzi F.
Sperber, che vi ha riscontrato anche tracce della lettura delle
pubblicazioni del Circolo Esoterico della Comunione del Pensiero – Tod-Hé-Van-Hé
e in particolare del «Corso di Iniziazione Esoterica», del 1933 – un
ambiente culturale che Sperber denomina genericamente «esoterismo
paulista»). Sagarana, quindi, è
il momento iniziale del processo di grandiosa assimilazione che metterà
tutto questo patrimonio filosofico-religioso, erudito e popolare, al
servizio delle storie di iniziazione, o romanzi di «educazione» o di «formazione»,
storie di personaggi che lottano per ottenere una forza interiore e
cercano la realizzazione di virtù – eroiche e trascendentali. La
vocazione didattica, formativa, di Guimarães Rosa, è affascinante:
l’uomo ha un progetto di perfezione e, a costo di lotte titaniche e
tremendi sacrifici e dolore, può realizzarlo. Ma tutto questo
può avvenire solo attraverso l’acquisizione della coscienza
dell’identità dell’io con l’essere universale – che sola può
garantire pace e felicità, come insegna l’Upanishad: «Solo uno –
scrive Guimarães Rosa di se stesso – per cui il momento non significa
nulla, uno, come me, che si sente nell’infinito come in casa, (...) solo
una persona così può trovare la felicità, e, cosa ancora più
importante, conservarla. (...) Au fond,
je suis un solitaire, lo penso anch’io; ma non sono come Mallarmé,
questo per me significa la felicità».
I
racconti scelti da Vera Lúcia sono esemplari: «O burrinho pedrês» e «Conversa
de bois» – in cui si legge appunto della profonda assimilazione fra gli
uomini, o in certi casi, i bambini, e gli animali del sertão;
«Sarapalha», la storia di due cugini inchiodati in una casa nel sertão
da una passione comune per una donna che ormai se ne è andata; «Duelo»,
la storia dell’odio e del duello mortale di Turíbio Todo e Cassiano
Gomes e, per finire, «A hora e vez de Augusto Matraga», unanimemente
considerato il più riuscito dei racconti di Sagarana,
che racconta la colpa, l’espiazione e la purificazione di Gnô Augusto
Esteves – un precursore, secondo Vera Lúcia, del protagonista di Grande
Sertão: Veredas, il jagunço/eroe
Riobaldo. Il jagunço è un
bandito – un po’ simile al «bravo» manzoniano – spesso assoldato
da proprietari di terre o politici per difenderne con la violenza gli
interessi: un complesso personaggio che contribuisce a comporre un
particolare ritratto del Brasile (dal punto di vista storico, sociale,
politico), che è un altro dei grandi terreni di studio e discussione
aperti dall’opera di Guimarães Rosa. Gnô Augusto dunque preannuncia il
jaguncismo di Grande
Sertão – come è stato osservato anche da Antonio Candido – in
quanto maniera di essere, modo di vivere che offre la possibilità di «operare
su un piano superiore». Fa parte della complessità della visione del
mondo di Guimarães Rosa – un mondo in cui tutto è misturado,
mescolato – il fatto che il jaguncismo
sia un modo violento di vivere e nonostante ciò, o proprio grazie a
ciò, offra possibilità di conoscenza e talvolta anche di riscatto. La
lettura di Vera Lúcia, che tocca tutte le questioni ormai classiche
dell’ermeneutica rosiana (i temi dei racconti, l’invenzione
linguistica, la questione dell’oralità, la morale, le filosofie, le
religioni e in genere l’immensa erudizione dell’autore, che permea il
mondo narrato, moltiplicando i significati possibili) – ha anche il
merito di essere chiara e lineare: un’introduzione ideale a Sagarana.
Lucia
Wataghin