Poesia & Poesia
Poesia bilingue - italiano e portoghese brasiliano.
Vera Lúcia de Oliveira (Maccherani)
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"Storie nella storia, le parabole di Guimarães Rosa"
Vera Lúcia de Oliveira, 2006

Storie nella storia
Le parabole di Guimarães Rosa

Vera Lúcia de Oliveira (Maccherani)

Pensa MultiMedia s.r.l

info@pensamultimedia.it 

Lecce 2006

14x22 cm, 196 pag
 ISBN: 88-8232-427-3
 16 €

Università degli Studi di Lecce
Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere
Collana di Studi e Testi - 39

"Misterios" - Milton Nascimento

Prefazione
Introduzione
Capitolo primo La proposta rivoluzionaria nelle storie di Sagarana
Raccontare è vivere
Capitolo secondo La mite saggezza degli esclusi

Capitolo terzo

Il contagio

Capitolo quarto

I mitici fiumi del grande sertão

Capitolo quinto

Parola, pensiero e anima dei buoi

Capitolo sesto

La morte e la resurrezione di Augusto Matraga

Bibliografia

 

PREFAZIONE

 

João Guimarães Rosa (1907-1967) è il maggiore dei narratori brasiliani contemporanei, amatissimo in Brasile e piuttosto conosciuto anche all’estero, essendo stato tradotto in numerosissime lingue (e particolarmente bene in italiano, da Edoardo Bizzarri, P.A. Jannini, Silvia La Regina, Giulia Lanciani). Medico e diplomatico, esordisce in letteratura relativamente tardi, a trent’anni, con il libro Contos, che prenderà più tardi il titolo di Sagarana. La storia di questo libro è inizialmente legata all’abbaglio di un altro grande scrittore brasiliano, Graciliano Ramos, membro della giuria del Premio Humberto de Campos (1937), che gli nega il primo premio, preferendogli il romanzo di Luís Jardim, un autore oggi a malapena nominato (e non sempre) nella storia della letteratura brasiliana. Gli abbagli sono sempre fatti curiosi: ma Graciliano Ramos subito dopo il fatto cerca dappertutto l’autore (che aveva preferito rimanere anonimo), per metterlo in contatto con la casa editrice José Olympio. Invano. Guimarães Rosa è a Amburgo, dove ha già iniziato la carriera diplomatica, e riprenderà il libro solo nel 1945 – dopo avere incontrato casualmente, verso la fine del 1944, Graciliano Ramos e avergli confessato di essere il misterioso autore della raccolta  di racconti presentata al premio. Sta di fatto che il libro resta virtualmente isolato anche dopo il successo ottenuto nel 1946, quando esce in nuova versione, per la prima volta col titolo Sagarana e con due racconti in meno – e sarà letto (e riletto) effettivamente solo negli anni ’60, alla luce dei capolavori successivi di Guimarães Rosa: soprattutto Grande Sertão: Veredas e Corpo de baile, usciti entrambi nel 1956.


foto Claudio Maccherani, 2003

È particolarmente benvenuto – in quanto primo studio di una certa ampiezza, in italiano, su Sagarana – il libro di Vera Lúcia de Oliveira, brasiliana di Cândido Mota (Stato di San Paolo), poetessa di fama riconosciuta (ha appena ricevuto, tra l’altro, il prestigioso premio 2005 per la poesia dell’Academia Brasileira das Letras) e docente di Lingua e Letteratura Portoghese e Brasiliana all’Università di Lecce. Vera Lúcia sceglie cinque (dei nove) racconti di Sagarana e li rilegge, con attenzione, con passione e con tutta la competenza resa possibile dal patrimonio critico che si è accumulato nei quasi settant’anni trascorsi dalla prima edizione del libro. Anche la sua lettura di Sagarana, naturalmente, non può prescindere dalle opere posteriori di Guimarães Rosa e si addentra nei segreti dello stesso sertão (vasto territorio del Brasile centrale, destinato prevalentemente all’allevamento del bestiame) dei Campos Gerais che è l’universo dell’opera di Guimarães Rosa. Alla luce, appunto, delle opere successive, Sagarana si configura più chiaramente. Nel 1946 i maggiori critici brasiliani avevano espresso ammirazione per la già raggiunta maturità del libro di un esordiente (cito, fra tutti, Antonio Candido, che lamentava la difficoltà di parlarne: se ne potrebbe parlare, scriveva, soltanto usando impressioni imprecise, come «capacità di raccontare» e «vigore narrativo» e aggiungeva: «il mio amico e maestro Giuseppe Ungaretti userebbe espressioni più dirette, invocando ragioni di ordine ormonale [...], le uniche capaci di esprimere [una simile] forza creativa»). Una delle prime questioni che si posero era se si trattasse di un libro «regionalista» o meno: si parlò immediatamente del carattere universale di Guimarães Rosa, nonostante o forse proprio in ragione del suo legame radicale, fortissimo e articolatissimo, con la specifica realtà storico-geografica-sociale-linguistica del sertão. Il titolo del libro fornisce una prima risposta alla questione: la parola «Sagarana», che Guimarães Rosa inventa, unendo «saga», termine che rimanda alle narrazioni epiche nordiche, e «rana», suffisso tupì che significa «a mo’ di, alla maniera di», indica la doppia natura, universale e regionale, della narrazione. E quindi, piuttosto che di regionalismo, si è parlato di «realismo poetico» (Benedito Nunes). O si è cercato di definire l’opera di Guimarães Rosa al di là di ogni categoria: né realismo né soggettivismo, scrive Augusto de Campos, la verità è che «Guimarães Rosa ci dà qualcosa di positivo e palpabile, che si può mangiare, come direbbe Ezra Pound». Ma forse, allargando il senso di un’espressione di Franklin de Oliveira, la definizione di tutta l’opera di Guimarães Rosa come una manifestazione di «amore panico» (per l’uomo e per il mondo) sarebbe ancora più felice.

I caratteri di Sagarana si definiscono meglio, dunque, nel quadro dell’intera produzione rosiana: come momento preciso di una sequenza, tutta coerentemente diretta ad approfondire e confermare le grandi passioni dell’autore: la lingua e il sertão.

La lingua, perché «lingua e vita sono una cosa sola: chi non fa della lingua lo specchio della sua personalità non vive». «Amo la lingua» – ha scritto Guimarães Rosa –  «l’amo veramente, come se fosse una persona». Una lingua ricchissima, onnicomprensiva e in costante espansione, fondata sul portoghese-brasiliano del sertão di Minas Gerais, che, nella misura in cui ha assimilato cinque secoli di influenze forti e diverse, è più ricco e più flessibile del portoghese del Portogallo – e d’altra parte, ancora secondo Guimarães Rosa, conserva elementi arcaici del portoghese di cinquecento anni fa, in quanto è parlato in un ambiente relativamente chiuso e isolato dal resto del Brasile. In questa lingua si inseriscono prestiti, calchi, termini eruditi e colloquiali, di origine indigena o europea, latinismi, neologismi e termini dialettali, oltre a tutto il vocabolario botanico e zoologico relativo al sertão, al punto che – bisogna dirlo – la lettura non può non risultare vagamente faticosa anche per il più erudito dei lettori. Le invenzioni linguistiche – lessicali, grammaticali, sintattiche – di Guimarães Rosa presentano analogie con quelle di altri grandi sperimentalisti, come Oswald e Mário de Andrade, in Brasile, e, in ambito internazionale, Joyce, Carroll, Rabelais e molti altri, ma anche grandi differenze, studiatissime (si parla soprattutto di una certa dimensione orizzontale, sovraindividuale, collettiva della lingua di Rosa, in opposizione per esempio a quella verticale, dell’«individuo totale» – come scrive Luciana Stegagno Picchio – di Joyce).

Il sertão è l’ambiente delle storie di Guimarães Rosa, perché nel sertão – è ancora Rosa che scrive, citando Goethe – «si parla la lingua di Goethe, Dostoevskij e Flaubert, perché il sertão è il terreno dell’eternità, della solitudine, dove Inneres und Ausseres sind nicht mehr zu trennen».

Il silenzio, e quindi forse la solitudine, fanno parte anche dei suoi progetti di auto-educazione personale. Cito da un quaderno di appunti di Guimarães Rosa (inedito): «1) Combattere l’espansività in tutte le sue forme. In modo generale, è necessario mantenere il silenzio. 2) Dominare tutti gli impulsi. Non comunicare notizie, non trasmettere novità (...). 7) Moderare tutti i movimenti espressivi e dare solo piccoli segni di emozione, sorpresa, allegria, scontentezza, ecc.. Ogni gesto disordinato, ogni segno di agitazione ci ruba qualcosa».

Nel sertão il silenzio e una relativa impenetrabilità nei gesti e nel comportamento sono norme di vita determinate dalla solitudine e dalla prudenza: abitudini che favoriscono naturalmente la concentrazione sul proprio mondo interiore, permettendo di vedere lucidamente il mondo, trascendendo le apparenze. Anche per queste ragioni il sertão si definisce per Guimarães Rosa come il territorio privilegiato per la realizzazione delle virtù eroico-ascetiche a cui tendono i suoi personaggi. In tale logica anche gli animali, silenziosi e tendenzialmente impenetrabili, si inseriscono nello stesso mondo spirituale dell’uomo (come nella filosofia buddista), agiscono e sentono, hanno una vita interiore come gli uomini. Nell’ambito di tale filosofia, la psicologia e il mondo interiore degli animali, così come sono trattati da Guimarães Rosa, assumono valenze profondamente poetiche. Tanto che Franklin de Oliveira ha definito Sagarana addirittura come un «trattato lirico di bovinologia».

La filosofia di Guimarães Rosa, radicalmente eclettica (e nel suo eclettismo, tipicamente brasiliana), accoglie Platone e Plotino, Bergson, Kierkegaard, il Nuovo Testamento (Cristo), la tradizione neoplatonica e ermetico-mistica, lo gnosticismo, l’induismo, l’Upanishad, lo spiritismo, non disdegna nulla. «Appartengo a tutte le religioni, non a una sola (...) e i miei libri sono come me». In Sagarana, come dimostra Vera Lúcia, fra tutte le influenze predomina quella delle parabole evangeliche (ma aggiungerei le curiose indicazioni di Suzi F. Sperber, che vi ha riscontrato anche tracce della lettura delle pubblicazioni del Circolo Esoterico della Comunione del Pensiero – Tod-Hé-Van-Hé e in particolare del «Corso di Iniziazione Esoterica», del 1933 – un ambiente culturale che Sperber denomina genericamente «esoterismo paulista»). Sagarana, quindi, è il momento iniziale del processo di grandiosa assimilazione che metterà tutto questo patrimonio filosofico-religioso, erudito e popolare, al servizio delle storie di iniziazione, o romanzi di «educazione» o di «formazione», storie di personaggi che lottano per ottenere una forza interiore e cercano la realizzazione di virtù – eroiche e trascendentali. La vocazione didattica, formativa, di Guimarães Rosa, è affascinante: l’uomo ha un progetto di perfezione e, a costo di lotte titaniche e tremendi sacrifici e dolore, può realizzarlo. Ma tutto questo può avvenire solo attraverso l’acquisizione della coscienza dell’identità dell’io con l’essere universale – che sola può garantire pace e felicità, come insegna l’Upanishad: «Solo uno – scrive Guimarães Rosa di se stesso – per cui il momento non significa nulla, uno, come me, che si sente nell’infinito come in casa, (...) solo una persona così può trovare la felicità, e, cosa ancora più importante, conservarla. (...) Au fond, je suis un solitaire, lo penso anch’io; ma non sono come Mallarmé, questo per me significa la felicità».

I racconti scelti da Vera Lúcia sono esemplari: «O burrinho pedrês» e «Conversa de bois» – in cui si legge appunto della profonda assimilazione fra gli uomini, o in certi casi, i bambini, e gli animali del sertão; «Sarapalha», la storia di due cugini inchiodati in una casa nel sertão da una passione comune per una donna che ormai se ne è andata; «Duelo», la storia dell’odio e del duello mortale di Turíbio Todo e Cassiano Gomes e, per finire, «A hora e vez de Augusto Matraga», unanimemente considerato il più riuscito dei racconti di Sagarana, che racconta la colpa, l’espiazione e la purificazione di Gnô Augusto Esteves – un precursore, secondo Vera Lúcia, del protagonista di Grande Sertão: Veredas, il jagunço/eroe Riobaldo. Il jagunço è un bandito – un po’ simile al «bravo» manzoniano – spesso assoldato da proprietari di terre o politici per difenderne con la violenza gli interessi: un complesso personaggio che contribuisce a comporre un particolare ritratto del Brasile (dal punto di vista storico, sociale, politico), che è un altro dei grandi terreni di studio e discussione aperti dall’opera di Guimarães Rosa. Gnô Augusto dunque preannuncia il jaguncismo di Grande Sertão – come è stato osservato anche da Antonio Candido – in quanto maniera di essere, modo di vivere che offre la possibilità di «operare su un piano superiore». Fa parte della complessità della visione del mondo di Guimarães Rosa – un mondo in cui tutto è misturado, mescolato – il fatto che il jaguncismo sia un modo violento di vivere e nonostante ciò, o proprio grazie a ciò, offra possibilità di conoscenza e talvolta anche di riscatto. La lettura di Vera Lúcia, che tocca tutte le questioni ormai classiche dell’ermeneutica rosiana (i temi dei racconti, l’invenzione linguistica, la questione dell’oralità, la morale, le filosofie, le religioni e in genere l’immensa erudizione dell’autore, che permea il mondo narrato, moltiplicando i significati possibili) – ha anche il merito di essere chiara e lineare: un’introduzione ideale a Sagarana.

Lucia Wataghin

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(by Claudio Maccherani )