Poesia & Poesia
Poesia bilingue - italiano e portoghese brasiliano.
Vera Lúcia de Oliveira (Maccherani)
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"Le Voci Della Luna", n.20, marzo 2002, Bologna

Intervista 03
La mia casa è la memoria

Intervista con
Vera Lúcia de Oliveira
(Maccherani)
di
 Loredana Magazzeni
2002

pubblicata in
"Le Voci Della Luna"
Rivista Culturale n.20, 03/2002, Bologna, pp.13-14
"Dentro la scrittura"
Quaderno CFR, 03/2012, Piateda (SO), pp.43-46

 "Dança da solidão" - Marisa Monte
 


"Dentro la scrittura", Loredana Magazzeni, CFR, 2012

  1. Che valore ha la “memoria” nella tua poesia”?

La memoria ha un gran valore. La memoria è il nostro tesoro personale, è il tesoro di ognuno di noi. Eppure, non sempre è facile convivere con la memoria e ci sono dei momenti in cui apparentemente la cancelliamo, la dimentichiamo, anche inconsciamente. È ciò che gli psicanalisti chiamano rimozione. In realtà nulla si perde nell’anima e ogni rimozione ha un prezzo. Ci sono delle persone che passano gran parte della vita cercando di dimenticare un nucleo doloroso di senso e poi cercare disperatamente di ricordare ciò che hanno dimenticato. Anche i poeti sono così. Scriviamo per ricordare qualcosa che ci pare di aver perduto da qualche parte dentro di noi. Qualcosa di fondamentale che ci è sfuggito e per questo va ricercato, frugato in ogni dove. Io sono ossessiva, lo riconosco. In realtà mi sembra che ogni mia poesia dica sempre la stessa cosa, che giri attorno allo stesso problema: lo osservo da tutte le parti, mi sposto, m’avvicino, m’allontano, ma è sempre quel nucleo, quella ferita che debbo districare, comprendere, perché siamo esseri pensanti e la vita non ci deve scivolare addosso senza che noi ce ne accorgiamo.

Io sono nata e cresciuta in Brasile. Ed ero già un po’ ossessiva sin da piccola: avevo il bisogno di comprendere le cose, la mia realtà, le persone, gli animali, le piante, persino le pietre. Volevo entrare dentro ogni cosa o persona e vederle da dentro. Il Brasile è un paese molto peculiare, per molti aspetti unico. Adesso che sono lontana, posso vedere con più obiettività i difetti e qualità del mio paese. Lì senz’altro i rapporti umani sono più immediati e intensi, le persone sono generose e si aprono, si mostrano senza paura. Non devi nasconderti, puoi diventare amico di una persona per tutta la vita dopo solo un’ora che l’hai conosciuta. Mi è successo più di una volta. Ed è un paese dove non c’è mai stata per davvero una guerra, una rivoluzione, dove si è sempre cercato di risolvere i grandi confitti in modo pacifico. L’indipendenza è avvenuta senza grandi traumi collettivi, così il passaggio dalla monarchia alla repubblica, dalla dittatura alla democrazia. Eppure, c’è in questo paese una distribuzione di ricchezze fra le più ingiuste del mondo, dove il ricco lo è in maniera scandalosa e il povero è un miserabile senza un buco in cui morire ed essere seppellito. Sono le contraddizioni di un paese “pacioccone” che pensa di arrivare alla giustizia e all’equità sempre con un “jeitinho”, un modo soave di fare le cose e di convincere l’altro con le argomentazioni. Quando studiavo all’Università ed eravamo sotto una dittatura, avevo rabbia di questo modo di essere. A quell’età si vuole lottare, cambiare il mondo subito. Non si ha pazienza. Ebbene, io sono cresciuta in questo luogo, in una città dell’interno dello stato di São Paulo. Convivevo con tutti i problemi che ha il mio paese, vedevo gente lottare, lavorare come bestie per tutta la vita e non ottenere mai niente, mai giustizia, mai rispetto. E morire senza proteste, perché a loro era toccato morire da cani senza diritto a un lamento, a un guaito. Non che si potesse protestare, non si scherzava, c’erano gli squadroni della morte, persone scomparivano. Si respirava la paura. E in questa situazione io mi ero messa in testa che volevo capire perché il mondo fosse fatto così. Non davo pace a nessuno, ai miei genitori, ai miei professori. Volevo sapere perché la gente soffriva, perché c’era il dolore. E non mi rispondevano mai in modo convincete, cosicché sono cresciuta con questa angoscia, questo domanda dentro. Se avessi avuto una esperienza diversa, se fossi nata in un altro paese, avrei avuto altre domande, o non avrei avuto domande, non so.

Sono sempre stata una persona fondamentalmente nomade. Sento di portare con me la mia casa, come le lumache. E la mia casa è la mia memoria, è tutto quello che vedo, vivo, sento, tocco, rubo al nulla, sottraggo al tempo, tutto ciò che vivrà con me finché io vivrò. Scrivo perché nulla vada perso, nessuna parola, nessuna immagine, nessun gesto, nessuno sguardo incrociato di fretta in una strada, nessun corpo che cammini da solo nel buio della morte.

  1. In «Tempo de doer» è davvero forte la percezione della persistenza del dolore, il suo carattere universale e carnale, fisico. Tu parli di “fedeltà chirurgica della memoria” e scrivi perché “ciò che è nato morto / non resti dentro insepolto”. La problematica del dolore ha segnato dunque la tua vita. Che importanza ha per te ora l’uso del bilinguismo? Scrivere in un’altra lingua senza perdere la propria ti ha creato contraddizioni?

Scrivo anche in italiano, è vero. L’ultimo mio libro, La guarigione, è stato interamente scritto in italiano. Lì recupero delle esperienze vissute nella mia lingua madre, il portoghese, ma rimosse da tanto tempo, esperienze che ho potuto recuperare solo in una lingua “altra”, una lingua che nel tempo per me è diventata anche una lingua dell’anima. Dunque, io penso e sento nelle due lingue. È complicato spiegarlo. Talvolta sogno in portoghese, talvolta in italiano. Ma non confondo mai le due cose, non le mischio, non vado a prendere da una lingua all’altra le parole che mi mancano nella poesia. Forzo il codice, lo “costringo” a dire quello che gli manca. Cerco cioè di colmare certi silenzi della lingua con parole “mie”, parole talvolta logorate ma ancora vive anche se sono come farfalline puntate con degli spilli. Gli spilli sono la vita di tutti i giorni, i discorsi vuoti, i sentimenti stanchi. Per esprimerli usiamo parole che si logorano, non perché esse siano logorate, ma perché noi le svuotiamo con il vuoto di noi stessi. Allora io mi innamoro delle parole che stanno come le farfalle in un quadro pacchiano da turista a caccia di esotismo del terzo mondo. Hai presente quei quadri che si vendono ai turisti nei negozi di souvenir dei paesi tropicali, con disegni fatti con le ali di farfalle colorate? Mi fanno pena quelle ali, in quel contesto sono povere cose senza senso. Ma un giorno sono servite, un giorno sfioravano il vento e la luce, i colori della natura e dei fiori, pulsavano. Le parole logore sono così. Nelle due lingue vado a volte a caccia di queste ali e scopro che ancora palpitano. Allora le uso per comporre un mio volo convulso, il volo di una farfalla che era dentro di me prima ancora che io nascessi. Perché le cose le vai a cercare se sono già dentro. Anche l’italiano era dentro, da quando ero bambina, l’italiano di quella nonna malata di nostalgia che mi raccontava di un paese da lei lasciato ancora piccola: l’Italia del sud, la Sicilia. Una terra amara e amata, per lei, che non ha mai potuto ritornare. Per me l’Italia era il paese dell’arte, dei grandi pittori che mi attraevano, da Giotto a Caravaggio, da Piero della Francesca a Michelangelo. Ma l’Italia ha significato per me anche, vivendoci, spazio di molto dolore, di crescita e di malinconia (ogni crescita poi comporta malinconia). La memoria è tutto quello che sono. Ognuno è la sua memoria o la sua assenza di memoria.

  1. Il tuo essere donna, in che modo ha influito sulla tua poesia?

Ha influito nel senso che io sento e vivo le cose da donna. La mia prospettiva è quella femminile. Cerco di capire gli uomini, di comprendere il loro modo di percepire la realtà e vedo spesso che è diverso dal mio, non peggiore né migliore, solo diverso. Come donna, faccio più caso a certe cose, ho un modo distinto di affrontare i problemi. Non vorrei scivolare sui luoghi comuni, ma penso che le donne hanno un tipo di sensibilità più acuta per la sofferenza e anche per la gioia. E che stabiliscono rapporti emotivi più intensi. Naturalmente ci sono le eccezioni. Oggi vedo che molte donne cercano di assimilare comportamenti fino ad ieri considerati maschili, così come vedo molti uomini assumere ruoli considerati più femminili. Questo mescolamento può essere positivo a patto che ognuno conservi la sua peculiarità. Se fossimo tutti uguali, sai che noia...

Certo, io avevo dei modelli nella società in cui sono cresciuta, quella brasiliana, una società patriarcale, comunque meno patriarcale di quell’italiana. A casa mia, ad esempio, per quanto “maschilisti” fossero gli uomini della famiglia, tutti aiutavano in casa le loro mogli. Non consideravano contraddittorio con il loro ruolo il dover cambiare pannolini ai bambini o il lavare i piatti. Mio fratello è bravissimo nello stirare, molto più bravo di me. Così, non sono cresciuta con questo rancore che avverto a volte in certe donne, che sembrano avercela con tutti gli uomini del mondo. Gli uomini sanno essere buoni amici, bravi ascoltatori. E alcuni sono di una delicatezza incredibile.

Loredana Magazzeni, 2002

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(by Claudio Maccherani )