CONFINE DONNA - XVIII PUNTATA
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Per
quali ragioni hai lasciato il tuo paese?
Sono
venuta in Italia per seguire i miei studi. Mi sono laureata in Lettere in
Brasile e avevo iniziato un corso di preparazione al dottorato. Nel frattempo,
ho partecipato a un bando e vinto una borsa di studio per passare un anno in
Italia e approfondire le mie conoscenze linguistico-culturali. Ho fatto, in
effetti, una vera full immersion nella cultura italiana e studiavo anche dieci
ore al giorno e di tutto, dall’arte alla filosofia. E poi leggevo, visitavo
le città d’arte e i musei e chiese e castelli, ville, torri, non mi
lasciavo sfuggire niente. In questi pellegrinaggi artistico-culturali ho
conosciuto mio marito e alla fine, dopo tante titubanze mie (perché non è
facile decidere di lasciare il proprio paese) mi sono sposata e iniziato una
nuova vita qui. In quel momento sono, però, iniziate le vere difficoltà,
perché una cosa è vivere l’Italia da viaggiatrice appassionata, un’altra
è viverci da straniera. E ogni giorno imparavo davvero che cosa erano i
problemi per trovare un lavoro e continuare a studiare, per essere accettata
dagli altri, per superare anche alcuni momenti di discriminazione che mi hanno
segnato.
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Mi
racconti il viaggio che hai intrapreso prima di arrivare in Italia?
Prima
di venire in Italia viaggiavo più che altro sui libri perché sono una
lettrice pertinace, divoratrice di libri. Lavoravo e studiavo e questo è
comune nel mio paese. I miei genitori non avevano mezzi per mantenere tutti
noi all’università e così chi desiderava per davvero continuare gli studi
doveva trovare il modo per farlo, e cioè trovare un lavoro. Così ho fatto,
ma questo mi ha precluso anche la possibilità di viaggiare più spesso, perché
lavorare e frequentare l’università era impegnativo. Le vacanze io le
passavo a preparare gli esami. E, quando ho avuto una borsa di studio di un
anno solo per studiare e viaggiare, mi sembrava di aver vinto alla lotteria.
Ero felice e m’incantavo di tutto e con tutto in questo paese, che
desideravo tanto conoscere e del quale ero innamorata. Mi sembrava che qui
avrei respirato l’arte, la storia, che mi sarei imbattuta nella poesia, come
volevo da sempre. E così è stato per un anno, dopodiché, come detto sopra,
sono iniziati i problemi. A dire il vero, non è che i problemi non ci fossero
anche prima, perché la borsa di studio che avevo era minima, quasi da fame,
ma mi arrangiavo, risparmiavo e facevo bastare quel poco, pur di respirare la
libertà, per studiare ciò che amavo (e continuo ad amare).
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Che
cosa ti ricordi del tuo arrivo e dei primi tempi che hai vissuto in Italia?
Fra
tante alternative, avevo scelto di passare quell’anno a Perugia, dove ho
fatto un corso intensivo di Lingua, Letteratura e Cultura italiana
all’Università per gli Stranieri di Perugia. Sono arrivata in una sera
umida e fredda d’inverno, il centro storico era avvolto dalla nebbia. Questa
immagine mi si è impressa nell’anima, Perugia sembrava uscire dal nulla,
dal sogno, dalla storia antica degli uomini che lì erano vissuti. Nei giorni
e mesi che seguirono, giravo a piedi per i vicoli saliscendi e mi piaceva e
tuttora piace il fatto che puoi camminare fra stradine che quasi ti soffocano,
con un vento forte che ti spinge contro pareti e muri di pietra e
all’improvviso il mondo si apre in un panorama sconfinato di monti su monti
che si perdono nella distanza…
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Qual
è stato il tuo rapporto con la scrittura in questo percorso di emigrazione?
Scrivevo
già in Brasile, anzi scrivo da bambina. Prima erano dei racconti brevi, quasi
una prosa poetica. Poi, all’università, ho scoperto la poesia del Novecento
ed è stato un innamoramento. Ho pensato che il linguaggio poetico era molto
più affine a quello che cercavo, nella sua densità e brevità. Avevo
partecipato a due o tre concorsi e vinto, sia con i racconti sia con le
poesie. Grazie a uno di questi ho pubblicato una piccola raccolta nel 1983, il
mio primo libro, uscito a San Paolo, in Brasile. In Italia, la nuova lingua
che acquisivo mi ha come allontanato per un po’ dalla poesia. Non sentivo
l’italiano come veramente mio, masticavo le parole, letteralmente, ma era
come se esse mi rifiutassero e quella lingua non scendeva con la saliva, non
si mescolava al mio sangue. Allo stesso tempo ne ero attratta perché mi
pareva di poter nascere di nuovo, di poter nominare il mondo un’altra volta,
come avevo fatto da bambina, in portoghese, ma ora consapevole di farlo. Era
qualcosa che mi portava alla genesi della poesia stessa quando le cose e il
mondo si rivelano e sono rivelate dalla lingua. In questa impasse, in questo
corpo a corpo con il nuovo idioma, per circa tre o quattro anni non ho scritto
nessuna poesia, né in portoghese né in italiano. Poi ho ripreso, in
portoghese, e piano piano mi sono venuti testi anche in italiano. Non li
cercavo e non li volevo, anzi. Tutto quello che mi veniva in italiano, cercavo
subito di incanalarlo nel portoghese materno, ma non era possibile. Ho
scoperto allora che l’italiano aveva occupato una parte di me e l’ho
accettato. Scrivo oggi nelle due lingue, senza drammi, lascio che le parole
facciano il loro percorso, che la poesia catturi attraverso di esse qualche
mistero, che illumini qualche parte in ombra che abbiamo nella coscienza. Le
due lingue non si fanno concorrenza, perché ognuna ha un suo ambito, il suo
spazio nell’anima.
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Come
hai superato il confine della lingua, scrivendo in italiano?
Ogni
lingua è una prospettiva sul mondo e ci insegna a vederlo e a pensarlo. Ci
sono cose che riesco a dire solo in portoghese e altre solo in italiano. Non
è che non abbiano una traduzione, ma certe esperienze e sfumature di
sentimenti o pensieri talvolta sono meglio definite in una lingua piuttosto
che nell’altra. Perché, come afferma Ortega y Gasset, “ogni lingua è
un’equazione differente fra manifestazioni e silenzi. Ogni popolo tace
alcune cose per poterne dire altre. Perché tutto sarebbe indicibile.”
(Miseria e splendore della traduzione, 2001, Il Melangolo, p. 42)
Parlare è modulare il silenzio, a volte è pure sventrarlo, altre volte è
inoltrarvisi con attenzione e delicatezza perché ci sono momenti che possiamo
sentire e captare solo se apriamo un grande spazio interiore. Fra le due
lingue, cammino e forse loro mi fanno camminare.
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Qual
è stato il confine che ti ha segnato di più, cambiandoti, quello dal quale
hai sentito di non poter più fare ritorno?
Forse
il più grande e definitivo confine è la morte. Spesso mi sono inoltrata per
sentieri difficili, attrata dalle persone in cui percepisco parole quasi
inaudibili. Sono le persone che sfiorano i confini, tutti i confini, quello
del dolore, quello della malattia fisica o mentale, e provo a sfiorarli
anch’io, pure quello di chi sta per attraversare una porta di non ritorno.
Vorrei sapere fino a dove la lingua arriva, fino a dove arrivano le parole,
dove cominciano a cadere senza senso da una bocca esangue che non può più
articolarle. Sfioro questa frontiera ma essa è muta, è terribilmente chiusa
allo sguardo, non ci fa vedere da vivi ciò sta al di là di quella linea.
Forse per il mio percorso di vita, per la passione per ogni essere e ogni
creatura, sfioro sempre i confini, sono attratta da essi e credo che una linea
di frontiera fra culture e mondi diversi mi attraversi da una parte
all’altra.
Da La
carne quando è sola
ho
messo dentro la terra un lettino
era autunno lasciavo le foglie
ammucchiarsi soffici sul suolo
facevo come un lenzuolo dorato
che si stendeva avvolgeva le orecchie
dentro la culla non so chi avevo
messo a dormire qualcuno c’era
piangeva a dirotto mai che avessi
potuto vedere il suo volto
*
aveva
imparato a osservare le rondini
sempre lì a partire sempre lì a migrare
poi tornano non le stesse magari altre
della stessa famiglia della stessa specie
si trasmettono l’odore dei luoghi
si trasmettono la dimensione delle cose
la memoria le misure dei pieni e dei vuoti
il ritorno era sempre una ricognizione
come se ognuna dovesse all’altra
la strada da fare e quella già fatta
Da
O músculo amargo do mundo
aquela
cidade comia a gente pelo intestino
aquela cidade tinha boca para devorar o mundo todo de onde viera
aquela cidade tinha fome que não se saciava, ele agora para alimentá-la
dera para atravessar as noites num farol vendo os carros implorando os carros
quella
città mangiava la gente dall’intestino
quella città aveva bocca per divorare l’intero mondo da dove era venuto
quella città aveva fame che mai si saziava, lui ora per alimentarla aveva
preso
ad attraversare le notti ad un semaforo a guardare le macchine a implorare le
macchine
*
esse
cão que me segue
é minha família, minha vida
ele tem frio mas não late nem pede
ele sabe que o que eu tenho
divido com ele, o que eu não tenho
também divido com ele
ele é meu irmão
ele é que é o meu dono
questo
cane che mi segue
è la mia famiglia, la mia vita
ha freddo ma non abbaia né chiede
lui sa che quello che ho
lo divido con lui, pure quello che non ho
lo divido con lui
lui è mio fratello
è lui che è il mio padrone
(Le
traduzioni sono dell’autrice)
Da Ditelo
a mia madre
ora
il libro è il mio corpo
girano le pagine che mi strappano di dosso
le parole si spaccano per terra
e non è possibile tenerle insieme
nello stesso discorso
Silvia
Rosa, Poesia del nostro tempo.it, 16/04/2019
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Claudio Maccherani )