Intervista
24
Un pensiero ancora informe nella forma
Intervista
a
Vera Lúcia de Oliveira
(Maccherani)
di Alessandra Mattei
Mosaico
Italiano, n.196, maggio 2020
Tessiture tra Italia e Brasile
Editora Comunità
Istituto Italiano di Cultura di Rio de Janeiro
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Lei
è giunta in Italia seguendo una doppia pista di studi: lo studio
dell’inedito Carte Geografiche di Murilo Mendes e l’interesse per la
poesia di Giuseppe Ungaretti. Può spiegare il peso specifico di questa
doppia ascendenza nella sua opera e nella sua visione di studiosa?
Murilo
mi attraeva per sua inquietudine, per la ricerca di senso che percepivo nella
sua poesia e nella sua vita. Ungaretti mi attraeva per la sintesi e
l’essenzialità della sua parola poetica, almeno quella dei primi libri,
come L’Allegria e Sentimento del tempo, che poi sono quelli che ho letto
all’inizio e che ho cercato di tradurre, quasi per impossessarmi di quelle
parole. E credo che la ricerca di sintesi e intensità sia diventata una delle
mie peculiarità, un’esigenza intima e vitale.
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La sua vicenda
biografica sottolinea il valore fortemente etico che la letteratura incarna
nella sua esperienza intellettuale. Ciò è particolarmente rilevante nella
sua esperienza di translingue. Potrebbe
spiegare il legame tra queste specificità nella sua poetica?
Il
sentimento etico deve guidare un intellettuale, almeno secondo me. È ciò che
dà valore alla vita, alla letteratura e all’arte in generale. Quando
scrivo, però, non penso di fare critica sociale, di mettere buoni pensieri o
buone intenzioni su un testo o su un libro. Quando scrivo, sento che la lotta
è di far coincidere una musica, una sensazione talvolta ancora vaga,
un’intuizione, un pensiero ancora informe nella forma, di plasmare una forma
per ciò che cerco di catturare. Sento che tutto svanisce troppo in fretta,
sento che perdiamo la vita e la sua luce e le sue ombre e non ce ne
accorgiamo.
La
poesia è uno strumento per cacciare farfalle che vivono un solo giorno. E
sono triste quando la vedo, la farfalla, e so di non ritrovarla mai più, e di
non essere riuscita a fermare per un attimo il suo volo in una parola. Se poi
in questo entra la consapevolezza che bisogna rispettare la vita, aprirsi agli
altri, vedere, entrare con tutto il corpo anche nel dolore per sviscerarlo e
forse capirlo, se entra questa dimensione di senso etico nella mia poesia,
entra perché altrimenti non potrei fare poesia, perché essa per me
perderebbe importanza.
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Che valore ha nella
sua poesia la dimensione corporale? Il corpo è doppio dell’esperienza
intellettiva come la voce translingue raddoppia e concretizza l’intimità
della lingua originaria?
Il
corpo non è doppio dell’esperienza intellettiva, non ho mai separato le due
cose. Vengo da una maniera diversa di vivere e di vedere, più legata al mito
nella sua essenza. Sono cresciuta in una regione interna di São Paulo e del
Brasile, dove tanto popoli si sono amalgamati e talvolta la fusione è
avvenuta violentemente. La cultura dell’indio però ha fecondato l’anima
del Brasile e dunque la mia, che sono nata e cresciuta in questo paese. La
natura è un mio prolungamento e un mio intendimento e sono parte di essa. Se
essa soffre, anche noi soffriamo, e vice-versa. L’intelletto sta in ogni
parte del corpo e il corpo pensa.
Inoltre,
vivo in Umbria, ho scelto l’Umbria quando sono venuta in Italia (e potevo
scegliere, con la borsa di studio che avevo vinto, una qualsiasi università
italiana). Mi attraeva la figura di Francesco d’Assisi e anche quella di
Chiara. E per San Francesco e Chiara c’è o dovrebbe esserci un’unità
intrinseca fra corpo e spirito, fra uomo e natura.
Non
sento l’esperienza translingue come un raddoppiamento, ma le lingue sono
strumenti di conoscenza. Le uso in situazioni diverse e a volte in ambiti
diversi perché una può essere più efficace dell’altra in certe
situazioni, in certi viaggi interiori molto profondi. Penso che prima di
partire (per viaggi dentro e fuori) inviti le due lingue sapendo però che
entrambe servono per tracciare un unico percorso. Talvolta busso a una porta
chiusa con una lingua ed essa non si apre. Allora uso l’altra ed essa ha la
chiave che l’altra lingua non aveva. Non mi preoccupo di sapere perché
aveva la chiave, mi affretto ad entrare perché conoscere è la mia passione.
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Nei suoi studi lei
sembra alludere a un parallelismo tra lo spazio linguistico plurimo occupato
oggi in Italia dai translingui e quello dialettofono degli Italiani
coinvolti nell’Emigrazione Storica: posizionando di fatto entrambe le
esperienze come forme dialettiche rispetto alla linea unitaria, linguistica
e contenutistica, letteraria. Potrebbe spiegarci il valore che Lei
attribuisce alle posizioni di eccentricità rispetto al canone della
letteratura?
Penso
che se ci nutriamo solo di un alimento, alla fine ci somiglieremo tutti. Così
è per i libri, per la letteratura e l’arte in generale. Bisogna estraniarsi
un po’ dalla tradizione in cui siamo cresciuti per poterla vedere anche da
fuori. Giorgio Agamben così definisce il contemporaneo:
"Pertence
verdadeiramente ao seu tempo, é verdadeiramente contemporâneo, aquele que não
coincide perfeitamente com este, nem está adequado às suas pretensões e é,
portanto, nesse sentido, inatual; mas, exatamente por isso, exatamente através
desse deslocamento e desse anacronismo, ele é capaz, mais do que os outros,
de perceber e apreender o seu tempo." (AGAMBEN, 2009, pp. 58-59)
Per
essere "deslocado", ti devi spostare, decentrarti, e dunque
ex-centrarti. Dai bordi il centro appare ed è totalmente diverso, sembra
molto più piccolo perché è ridimensionato. Chi circola per più tradizioni
letterarie e si alimenta di autori e testi talvolta lontani e, almeno
inizialmente, estranei alla propria cultura, certamente avrà un rapporto
diverso con il suo stesso mondo. Chi parte e torna non sarà mai più lo
stesso. Tutti gli autori "eccentrici" rispetto al canone mi
interessano, perché hanno uno sguardo differente, vedono di più o vedono
altro che ci sfugge. Penso per esempio allo stesso Ungaretti, a Pessoa, a
Guimarāes Rosa, a Clarice Lispector e tanti altri.
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Che cos’è il dolore
per Lei? Spesso nelle sue raccolte assume un valore centrale: quasi di
motore di una vicenda che da individuale passa liquidamente a collettiva o
che si muove in direzione
opposta.
Ho
avuto a che fare presto con il dolore. Sono cresciuta nel periodo della
dittatura in Brasile e vedevo la fatica di vivere dei miei genitori. Mio padre
era un sindacalista impegnato e vedevo come spesso cercasse di tenere dentro
la rivolta contro chi deteneva il potere di fare morire di fame e di umiliare
milioni di persone. Non è che lui ci parlasse di politica, ma spesso
assimiliamo dal silenzio il suo senso. E mia madre era anche lei una persona
attenta e solidale, coinvolta nei problemi dei vicini e comunque di persone
sole o che avevano bisogno di aiuto. Gli anziani soli, poi, lei li adottava
come se fossero i suoi genitori. Tutto questo mi ha resa consapevole da subito
del dolore e più gli adulti parlavano basso su tanti problemi e più acuivo
l’orecchio per carpire qualche informazione che potesse chiarire la vita e
le sue diramazioni.
Sulla
tortura, avevo sentito parlare un giorno in televisione, ma molto di sfuggita,
come se fosse una parola proibita. Così ho chiesto che cosa fosse a mio
padre. Lui mi ha guardato a disagio e ha cercato, ne sono convinta, le parole
per dirmi cosa fosse senza farmi soffrire. Ha fatto un giro di parole e più
mi potava lontano dal senso e più ci cascavo dentro.
Sono
diventata molto brava ad ascoltare, mi interessavano le storie, tutte quante,
e quando non riuscivo a conoscerle le inventavo. Non ho scritto subito poesie,
ma racconti brevi, di nascosto, e ogni persona e ogni animale che incontravo
andava a finire sulle pagine del mio quaderno con una sua storia. Per farlo,
ho imparato a essere l’altro, a entrare nell’altro, a invadere il suo
dentro e il suo senso. Il risultato di tutto questo è che ho avuto problemi
di depressione, sono diventata una bambina triste e ho dovuto imparare, con
una brava psicologa, che l’io ha delle frontiere e che bisogna rispettarle.
Non mi sono applicata tanto, però, e queste frontiere le varco ancora spesso.
Non è per indiscrezione, ma per desiderio di allargare la coscienza e di
essere anche ciò che non sono, ma potrei essere. La consapevolezza del dolore
mi ha reso più attenta a chi mi sta attorno, più paziente e più solidale.
Negli
aeroporti, che sono non tempi e non luoghi, ho la tentazione di mettermi in un
altro portone di imbarco, non il mio, ma uno diverso e di andare a finire
chissà se dall’altra parte del mondo e di vivere un’altra vita.
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La dimensione plurale
che si sviluppa nella sua scrittura poetica sembra trovare conferma nella
sua adesione alla Compagnia delle Poete. Che valore specifico ha per la sua
personale relazione con la letteratura questa esperienza?
Non
avrei mai pensato di farne parte. Chi ha creato la Compagnia delle Poete è
Mia Lecomte, scrittrice e studiosa di grande valore, che nel tempo è
diventata una cara amica. Ma quando lei mi ha invitato a farne parte, la mia
risposta negativa fu tassativa: mai e poi mai avrei prestato la mia voce, il
mio corpo in scena alle poesie che scrivo. Ho sempre pensato che le poesie
sono di chi le legge. Mia con molta diplomazia mi ha solo suggerito di vedere
le prove di uno spettacolo che le amiche della Compagnia stavano allestendo,
nella condivisione di parole, esperienze, vite. Così sono andata a vedere e
siamo state insieme per tutto un fine settimana, in cui vedevo quelle compagne
con le mie stesse perplessità e paure, che si facevano coraggio a vicenda ed
erano belle e forti. Così sono finita dentro anche io, ma ogni volta che
facciamo uno spettacolo mi dico che sarà l’ultima volta e poi, dopo un
po’ di tempo, mi ritorna la voglia di scambiare con loro e con il pubblico
qualcosa di noi. E mi sono resa anche più consapevole di quanto siano
narrativi i miei testi lirici.
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La sua ricognizione,
indagine e frequentazione della poesia italiana stanziale è testimoniata da
una lunga frequentazione e fedeltà con alcune delle maggiori voci poetiche
del Novecento. Quale crede sia la fisionomia attuale della poesia italiana?
E lei in che relazione si pone con la produzione stanziale italiana?
Questa
è una domanda che richiederebbe un saggio come risposta. Prima o poi lo
scrivo… Per via del mio lavoro, di insegnante e ricercatrice di letteratura
portoghese e brasiliana, mi occupo di più di lusitanistica, cercando di
seguire i movimenti, le tendenze, gli autori e il dialogo che stabiliscono con
la società e con il loro tempo. La poesia italiana la seguo per passione e
senza un vero metodo di ricerca. Se mi piace leggo, seguo, cerco informazioni,
divoro le parole…
La
relazione che ho con la poesia italiana è quella che ho con la lingua, che è
una delle lingue della mia anima. Amo quelle che mi aprono porte, quelle che
hanno un rapporto vero con la vita e con tutto ciò che ascolto mentre
cammino, faccio la spesa, sono in fila al supermercato. Cerco queste loro
parole e il modo come i grandi poeti di questo paese le hanno rielaborate, da
Dante in poi. E sì, amo più Dante che Petrarca, gli autori viscerali,
radicali…
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Lei
è chiaramente un’autrice e una poetessa che usa con piena consapevolezza
e competenza lo strumento del translinguismo. Quale valore deve dunque
essere attribuito alla sua scelta di farsi tradurre da Guia Boni nella sua
silloge, per molti aspetti centrale, Nel cuore della parola,
significativamente introdotta sia da Luciana Stegagno Picchio che da Lêdo
Ivo? Si potrebbe leggere in questa sua scelta la conferma di una sua, tra
l’altro altrove esplicitamente espressa, dichiarazione che non una
sintesi, ma una divaricazione perennemente attiva attraversa il versante
della doppia lingua di espressione poetica che adotta?
La
scelta di farlo tradurre da Guia Boni si lega al fatto che quando mi hanno
proposto di pubblicare questo libro lo avevo scritto da troppo poco tempo, e
lo sentivo ancora attaccato al cordone ombelicale del portoghese. Ero lì e
non volevo e non potevo, in quel momento, instaurare subito un rapporto più
distaccato e analitico, necessario alla traduzione. È ciò che ho detto alla
mia carissima Prof. Luciana Stegagno Picchio e lei mi ha proposto che a
tradurlo fosse Guia. Ho accettato subito perché conoscevo il lavoro di Guia e
in un certo senso abbiamo lavorato insieme, ma lasciavo a lei le scelte,
suggerivo solo, quando mi sollecitava, ma pensavo che quelle poesie abitavano
la lingua portoghese e che Guia fabbricava una casa diversa per loro.
In
sostanza è così che scrivo, le poesie abitano le lingue in cui sono scritte.
E sono abitate da esse.
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Che peso dà
all’esperienza d’arte e a quella linguistica e letteraria in
particolare?
L’arte
ha un enorme peso per me, ne sono affascinata, appassionata, da sempre:
musica, pittura, scultura, cinema, fotografia… vivo e mi alimento di ritmi e
immagini. Ma forse la musica è quella che più mi è congeniale e la ascolto
continuamente. Ogni corpo, ogni gesto ha un suo ritmo e una sua melodia
interiore.
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In che modo lega il
valore di resistenza e di impegno civile e democratico proprio degli
intellettuali della sua generazione con le urgenze odierne?
Bisogna
essere profondamente onesti e responsabili in ciò che siamo e facciamo.
Letteratura non è politica in senso stretto, ma lo è in senso lato, perché
la letteratura ci rende più umani. Lo studioso Antonio Candido ha affermato
che il diritto alla letteratura dovrebbe fare parte dei diritti fondamentali
dell’uomo ed essere riconosciuto in quanto tale. I libri ci portavano verso
gli altri, ci fanno vivere esperienze diverse e allargano la nostra capacità
di sentire, di capire e di pensare. La poesia, come linguaggio verticale, è
ancora più importante perché la poesia può entrare dove altre arti non
entrano. Il poeta si inoltra con tutto se stesso in quello che vive o capta,
talvolta anche in modo rischioso. Nella poesia portoghese, ad esempio, che è
così viscerale, sai quanti poeti si sono suicidati? Tanti, come Mário de Sá-Carneiro,
che aveva la consapevolezza di andare ad sfracellarsi mentre sviscerava la sua
identità, ma non si è tirato indietro.
Quando
mi addentro per certi percorsi, scendo così tanto che spesso ho avuto bisogno
di qualcuno che mi venisse a cercare e talvolta, chissà, a salvare.
Alessandra
Mattei, Mosaico Italiano n.196, maggio 2020
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(by
Claudio Maccherani )