Poesia
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Vera Lúcia de Oliveira è nata in Brasile nel 1958, la madre è figlia di immigrati italiani. L'esordio poetico risale al 1983, lo stesso anno in cui vince una borsa di studio per l'Italia e si trasferisce a Perugia, dove tutt'ora vive, pur essendo ricercatrice di Letteratura Portoghese e Brasiliana presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell'Università di Lecce. Scrive (e traduce) sia in portoghese che in italiano. Tra i tanti riconoscimenti è da segnalare almeno il Premio di Poesia dell'Accademia Brasiliana di Lettere e quello, più recente (giugno 2006), del Ministero dell'Educazione del Brasile con il libro inedito Entre as junturas dos ossos, che sarà pubblicato in 300.000 esemplari e distribuito in tutto il paese. Verrà l'anno (Fara, Santarcangelo di Romagna 2005, pp. 79, Euro 8) è il suo ultimo lavoro poetico, scritto direttamente in italiano. È una specie di denso poemetto, dove i testi - come quelli della precedente raccolta - si susseguono senza titolo, né punteggiatura, né maiuscole (restano solo i punti interrogativi). Nel cuore della parola (2003, Adriatica - traduzione di Guia Boni) contiene un saggio di Luciana Stegagno Picchio in cui la studiosa sottolinea il forte legame della poesia di Vera Lúcia de Oliveira al senso dell'udito (la sua grande capacità d'ascoltare le voci del mondo), all'oralità e alla tradizione popolare. Per questo i suoi testi sono liberi d'ogni eccesso di retorica, d'enfasi, di ostentata metafisica per puntare dritto al cuore, all'essenza delle cose, e della vita. Una poesia quotidiana, quindi, eppure che, senza apparente sforzo, riesce a spingersi avanti, a diramarsi verso l'altrove, a coinvolgere l'elemento universale. Così la voce del singolo diventa una voce collettiva, che può essere di ciascuno di noi, o di tutti insieme, una voce corale:
Poesia tratta da Nel cuore della parola, raccolta tra l'altro impreziosita da un commento del grande poeta brasiliano Lêdo Ivo che di questi versi apprezza il "lirismo coagulato" che supera le tradizionali misure metriche "per imporre, in un'apparente decostruzione, una realtà che ferisce e inquieta". Il bilinguismo di Vera Lúcia de Oliveira, e potremmo anche aggiungere il "biculturalismo", si traduce in un ampliamento degli strumenti per comprendere il mondo, per penetrare i segreti della vita dell'uomo, della sua anima e - soprattutto - del suo dolore, in capacità di accogliere le voci che ci stanno intorno senza rinchiudersi nel proprio io. La lingua semplice e parlata, quella di tutti i giorni che evita ogni parola difficile o aulica, è il filo con il quale il poeta tesse il "discorso comune": la voce intensa e pacata che parla per ogni uomo, così com'era all'origine della poesia. Allora il trascorrere della vita e della storia si fa materia lirica, nutrimento di questi testi che talvolta sembrano racconti in miniatura:
Se la grande tradizione della poesia in lingua portoghese è ovviamente presente in quella di Vera Lúcia de Oliveira - si pensi a Carlos Drummond de Andrade, a Murilo Mendes, al citato Lêdo Ivo di cui qui da noi la de Oliveira ha curato una stupenda antologia, o allo stesso Pessoa, - in quel desiderio dell'autrice d'immedesimarsi in personaggi diversi, di riuscire dal di dentro a esprimerne la passione, il dolore, come non pensare all'Ungaretti che in pochi versi descrive tutto un mondo di passioni, alla sua misura, alla cura maniacale per ogni singola parola. Inoltre la lingua della poeta brasiliana (o brasilo-italiana?), il tono basso e insieme la tenacia nel resistere alla degradazione del linguaggio comune, così come le tante domande presenti in Verrà l'anno e il tono a volte volutamente infantile, ripetitivo, ingenuo, un po' sconnesso, fanno venire in mente il primo Palazzeschi (di "I cavalli bianchi" e "Lanterna") e i poeti dialettali italiani del Novecento, soprattutto Raffaello Baldini:
Il rapporto con il Brasile lontano è fortissimo, e struggente. Per questo la parola "casa", è la più usata (sognavo una casa sulle spalle/ come una lumaca dicevo). Un alloggio sobrio e piccolo, perché bisogna essere sempre pronti a spostarsi, a fare e disfare le valigie, a portarsi dietro poche cose: quelle necessarie, indispensabili. Soprattutto il ricordo, e la presenza e l'amore degli altri. Normalmente la poesia si nutre di silenzio, qui è il contrario: la casa-poesia di Vera Lúcia de Oliveira è fitta di voci e rumori, e affollata di volti. Verrà l'anno (che come inedito ha vinto il premio "Popoli in cammino") si compone di 59 brevi testi: è un piccolo libro che però contiene grandi cose. Dal taglio originale, per via di quel surrealismo dimesso, fatto di versi quasi sussurrati, privi di toni retorici e declamatori. Dalle poesie di questo poemetto che si proietta verso il futuro - eppure legatissimo al passato e alla memoria - emerge un mondo fiabesco e altamente lirico, legato alla purezza, al candore, alle portentose visioni dell'infanzia. INTERVISTA
Si,
l'ho scritto in italiano. Vivo da molti anni in Italia, e scrivo nelle due
lingue, portoghese e italiano. Questo non è il primo libro che scrivo in
italiano. Nel 2000 ho vinto il Premio di poesia di Senigallia con la raccolta La
guarigione, scritta anche tutta in italiano. Non è una cosa che ho cercato o
voluto, solo è successo per le contingenze della vita. Scrivo sin da bambina,
stranamente non ho iniziato con la poesia, come avviene di solito. Ho cominciato
con i racconti, molto brevi. Poi sono approdata alla poesia perché è il
linguaggio della massima concisione e della massima incisività. Prima di venire
in Italia, quindi, avevo già pubblicato il mio primo libro, una breve raccolta
che aveva vinto un premio nazionale in Brasile, nell'83. Poi, per un po' di
anni, sono vissuta in bilico, senza decidermi, fra il Brasile e l'Italia, e per
ognuno di questi due paesi provavo un'attrazione irresistibile. Alla fine, ho
dovuto scegliere e visto che ormai mi ero sposata in Italia, sono rimasta qui,
ma sempre con il desiderio di ritornare in Brasile. E la cosa paradossale è che
quando sono in Brasile, desidero talvolta essere in Italia, e viceversa, come se
in realtà il mio problema fosse proprio che sono una nomade nell'anima, una
straniera ovunque, un'esule in qualunque posto mi trovi. Allo stesso tempo, mi
sento sempre a casa ovunque, amo ogni città che visito, ho una passione
insaziabile per i viaggi, per i paesi, le persone che incontro, i modi di
vivere, i modi di parlare e di scrivere, di mangiare, di camminare, di vivere e
persino di morire. Una cosa che osservo spesso è il rapporto che ogni popolo ha
con la morte e questo rivela, d'altra parte, il rapporto che ha con la vita.
Credo di no. Non è lo sguardo che cambia, ma l'ambito osservato, la parte di realtà che scruto, sia dentro che fuori di me. Una lingua è una prospettiva sulla realtà e le parole nascono perché sono necessarie nel rapporto con la geografia e con la storia di un popolo. In Italia probabilmente uso parole che posso usare meno o proprio non utilizzare in portoghese, e viceversa. Ci sono parole intraducibili da una lingua all'altra. Si possono trovare approssimazioni, adattamenti, ma talvolta non c'è nell'altra lingua un termine per lo stesso concetto, o lo stesso sentimento che si desidera esprimere. Questo è uno dei drammi del traduttore. Una lingua è una cultura, non basta conoscere il funzionamento del sistema e le regole grammaticali: se non si conosce il paese che usa quella lingua, il modo de pensare delle persone che vi abitano, non si conosce veramente il suo codice espressivo.
Sono
due mondi molto diversi, nonostante si pensi molto spesso che ci siano tante
affinità fra Brasile e Italia. Non nego che ci siano affinità, ma quanto ti
ritrovi a vivere in Italia, come nel mio caso, saltano fuori soprattutto le
differenze.
Mi sento legata a tanti poeti, brasiliani in primo luogo, visto che sono stati i primi che ho letto, come Manuel Bandeira, Mário de Andrade, Carlos Drummond de Andrade, Murilo Mendes, João Cabral de Melo, poeti portoghesi dell'Otto e del Novecento, come Fernando Pessoa, Cesário Verde, Sophia de Mello Breyner, Camilo Pessanha, Eugénio de Andrade. E poeti italiani contemporanei, come Giuseppe Ungaretti, Giorgio Caproni, Sandro Penna. E poi gli scrittori russi, la mia passione adolescenziale, e francesi, scoperti all'università. Leggo molto, soprattutto poesia e saggistica. Ultimamente meno prosa, e solo quello che veramente riesce a interessarmi dalle prime pagine. Di tanti nomi che potrei citare, penso un peso specifico si debba all'opera di João Guimarães Rosa, uno dei più grandi scrittori di lingua portoghese di ogni tempo, e Marguerite Yourcenar, con il suo Memorie di Adriano.
Non penso che questo problema sia stato posto ancora, non in Brasile almeno ma non credo neanche in Italia. In Brasile succede che chi vive fuori viene abbastanza ignorato dalla critica. Abbiamo qualche possibilità solo partecipando ai concorsi e ai premi letterari che poi pubblicano le opere vincitrici. Solo così riesco a pubblicare, sia in Brasile che in Italia. Si può dire che solo ora stia nascendo una critica interessata agli autori brasiliani della cosiddetta diaspora, perché in effetti ci sono attualmente diversi scrittori e intellettuali brasiliani che vivono e scrivono all'estero. Due anni fa la Prof. Else Vieira ha organizzato a Londra un seminario proprio su questo tema, e ora uscirà la prima antologia dei poeti brasiliani bilingui: ne fanno parte tre poeti che vivono in Inghilterra, uno che vive in Canada, e io, che vivo in Italia. E ci sarà uno studio molto interessante del fenomeno da parte di Else Vieira. L'antologia sarà presentata a Rio de Janeiro nel prossimo mese di luglio, al Convegno Internazionale di Letteratura Comparata (ABRALIC). Per quanto riguarda l'Italia, vedo che ci sono ultimamente convegni sugli autori stranieri che scrivono in italiano, ma ognuno cura solo il proprio orticello. Bisogna per forza classificare, delimitare. È come se poi ti chiedessero di scegliere, stai di qua o di là, cioè sei autore - che ne so - algerino, albanese - o sei italiano? E se uno appartiene a due contesti, a due mondi, e se non gli è proprio possibile scegliere senza menomare tutta una parte di sé? Gli autori così in bilico sono condannati, credo, ad essere ignorati a lungo, come è successo appunto a Murilo Mendes e a Fernando Pessoa.
Mi stupisce che tu dica che i miei testi sono leggeri, e anzi ne sono contenta perché in genere mi dicono il contrario. Affronto questioni sempre dolorose, ho bisogno spesso di mettere le mani dentro la ferita, per capire quanto è estesa e per cercare di guarirla, se è possibile. Per anni ho avuto un dialogo a distanza con una cara amica di Messina, Grazia Basile, che è venuta a mancare da poco, una persona coltissima e di grande sensibilità. Lei mi diceva proprio che temeva questa mia frequentazione della parte più dolorosa della vita, voleva farmi vedere altre cose, temeva che io soffrissi più degli altri. A volte abbiamo avuto telefonate infuocate: le dicevo che non ero io a scegliere certe tematiche, anzi non potevo evitare di guardare le cose, di vedere quanto dolore c'è ovunque, di notare le persone abbandonate, buttate via come cose, escluse da tutto. Come posso vivere facendo finta che tutto sia bello solo perché sto bene, ho da mangiare, ho bei vestiti da mettere? Non è retorica, il fatto di essere cresciuta nel sud del mondo mi ha dato una prospettiva diversa sulle cose. Il dolore poi, non lo capisco e non lo accetto. Ho scritto tutto un libro sul dolore, Tempo de doer / Tempo di soffrire, pubblicato nel 1998, in cui rifletto sul dolore in tutte le sue dimensioni e manifestazioni. Ma forse hai ragione a dire che la raccolta Verrà l'anno è più leggera delle altre. Proprio per questo l'ho dedicata a Grazia Basile, perché forse era così che lei intendeva la leggerezza della poesia: non deve essere leggera per noi che la scriviamo, ma per il lettore, che potrà scendere nelle cose e anche nelle ferite della vita senza sentire il dolore che abbiamo sentito noi. Lo aveva affermato già Fernando Pessoa in una famosa poesia:
Hai visto bene e se penso a ciò mi accorgo che tutti gli autori e poeti amati da me seguono questa linea, non sono criptici, non parlano solo a un pubblico di iniziati. A me interessa molto ascoltare, vado in giro camuffata, se così si può dire, e ascolto voracemente le voci attorno a me, non il chiacchiericcio banale, ascolto le voci che portano con sé un po' dell'anima di chi parla. Sono queste le parole pesanti, le parole concrete, terribilmente giuste anche quando racconto del dolore e della morte. Ho sempre avuto un'attrazione per le parole dense e le vado a cercare. Rubo parole, ma non lo faccio per male, lo faccio per imparare qualcosa da loro, per imparare a condividere le sofferenze, a essere paziente con me stessa e con gli altri, a essere umile quando scrivo. Si, credo che sia una visione spirituale che mi porta a scegliere le parole di tutti, a non pensare che io sia stata nominata da non so quale divinità per parlare in nome degli altri. Non parlo in nome degli altri, parlo con gli altri.
È un discorso che ho sentito, non con le stesse parole, ma con lo stesso senso. Il "là" è l'altra vita che la religione afferma che avremo. Ma un poveraccio che ha sempre patito la vita, teme la resurrezione. Per voler rinascere bisogna amare la vita. Ho osservato che i vedovi e le vedove che si risposano, lo fanno perché sono stati felici nel primo matrimonio. Ma chi è stato infelice, non ne vuole più sentir parlare. In Brasile, durante il periodo della dittatura, molti sacerdoti che lavoravano nelle regioni più povere del paese, dicevano che non potevano più promettere, come compensazione, il regno dei cieli a chi moriva di stenti davanti a loro, tanto non sarebbero stati credibili. Così è nata la Teologia della Liberazione, nella quale sono cresciuta e che condivido.
Si, è proprio questo, è una poesia fatta di voci, non oso dire che sia corale, non vorrei essere presuntuosa. Nel libro che uscirà ora in Brasile che ha come titolo No coração da boca, in italiano approssimativamente Nel cuore della bocca, raccolgo una serie di voci, voci che erano rimaste a lungo dentro di me, e sono voci dolenti, di gente che cerca qualcosa, tante cose, talvolta piccole cose per essere felice. Come le persone desiderano la felicità... è il sentimento più forte che abbiamo, il desiderio più profondo. Ognuno poi individua in qualcosa o in qualcuno la felicità. Ma tante persone si accontenterebbero di molto poco e neppure questo poco viene loro concesso. Alessio Brandolini, Luglio 2006 Inizio pagina corrente Poesia Pagina iniziale (by Claudio Maccherani ) |