Intervista
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"Ero in un caldo paese"
Intervista
a
Vera Lúcia de Oliveira
(Maccherani)
di
Giovanni Fierro
"Fare
voci", Rivista di scrittura online
luglio-agosto 2020
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In
questo libro la luce è protagonista assoluta. È forza che crea,
accadimento che fa cambiare le prospettive. Da cosa nasce questa sua
presenza così forte in queste pagine?
Ho
sempre cercato la luce. I miei genitori, senza volerlo forse, hanno intuito la
mia natura intrinseca, quando hanno scelto il mio nome (“Vera Lucia”,
derivato dal latino e letteralmente “luce vera”).
Cerco una luce vera in ogni cosa, la fonte di luminosità di ognuno, che
talvolta lampeggia anche nel dolore profondo, in quelle persone speciali e
rare che trasformano tutto in dono.
Alcuni amici mi hanno rimproverata più volte per scegliere certe strade
difficili da percorrere nella mia poesia, come la solitudine, la malattia,
l’abbandono, la morte, ma ho sempre seguito una traccia sottile di luce che
le persone emanano anche nei luoghi bui.
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Il libro ha
anche un’altra sua specifica identità. È un fiorire continuo (di ogni
tema che affronta…), dà sempre l’dea di essere nel momento preciso in
cui ciò sta sbocciando. È forse questo un desiderio, una necessità, di
documentare il momento in sé, il presente come istante irripetibile?
Cerco
di fermare il tempo nel momento di genesi, quello appunto “irripetibile”,
perché lì c’è un’energia e una luce potentissime. Ma mi interessa anche
l’opposto, quando queste si spengono. Siamo forse, noi umani, gli unici a
capire tali momenti o a desiderare di farlo.
Ieri ho visto, in macchina con mio marito, una rondine caduta forse nel primo
fragile volo su una strada. L’abbiamo vista all’ultimo momento che si
dibatteva ed era forse già stata investita da una macchina prima di noi.
Non ci si poteva fermare in quella strada, ma quella rondine l’ho portata
dentro di me a casa, che si dibatteva lì sola, un pezzettino di carne che
soffriva e forse non sapeva neanche cosa fosse il dolore prima. Ho pensato che
era più triste la sua morte proprio perché lei non sapeva nominarla e
capirla.
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Sì, la ‘luce’, ma
anche ‘pane’ e ‘radice’…. Mi sembra che in questo scrivere ci sia
il desiderio di ritornare alle cose necessarie, una volontà di eliminare il
superfluo e mantenere l’essenza di ogni cosa. Non a caso in una poesia è
citato Ungaretti… è così?
Cito
Ungaretti ma anche Francesco d’Assisi e Sandro Penna, tutti poeti
dell’essenza delle cose, essenza e sintesi che si trovano anche nei loro
versi. Non è che non mi interessino le altre cose che ci circondano, non sono
un’eremita e non mi piace l’isolamento.
Ho bisogno di sentire attorno a me l’umanità che si muove, indaffarata o
meno, che lavora, studia, parla, cerca, protesta, piange… L’essenza che
cerco è quella della vita, che ogni creatura ha in sé e che la fa muovere,
emanare luce e calore, irradiare bellezza. Le creature emanano bellezza anche
quando non lo sanno.
Sono attratta come ogni persona dal bello, non il bello simulato o
falsificato, ma quello che bisogna sapere e voler vedere. Cerco il vero di
ognuno, il momento in cui ognuno si guarda e si vede come è davvero.
Pure la solitudine è una dimensione che esploro, anche in mezzo agli altri,
anche, ad esempio, in una strada affollata, perché la solitudine è uno
spazio interiore abitato da voci e parole che siamo in grado di accogliere in
noi.
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Il libro non si divide
in capitoli, ma le poesie si susseguono pagina dopo pagina, quasi a mettere
in scena un possibile continuo flusso di coscienza, come se ogni poesia
prepari già quella successiva… come mai questa scelta?
È
una caratteristica del mio modo di scrivere, sia in portoghese che in
italiano. Non scrivo poesie isolate, elaboro lungamente un tema, qualcosa che
mi sollecita, che mi turba.
Posso passare anche mesi senza scrive un unico verso e intanto “rimugino”
dentro pensieri e immagini. E all’inizio non so ancora in quale lingua lo
stia facendo. Solo ad un cerco punto mi diventa chiara la lingua in cui quelle
riflessioni si sono incanalate.
Poi arriva un momento in cui le parole, i versi quasi saltano fuori dal flusso
sanguigno sul foglio. E allora non mi fermo, scrivo di getto, una dopo
l’altra. Non sempre mantengo l’ordine, quando organizzo quel materiale, ma
molti testi sono pronti, elaborati a lungo dentro.
Il lavoro allora è di tagliare i testi superflui, anche se non è difficile
farlo perché è come se la mia misura fosse più o meno 50 poesie per ogni
libro. Visto il processo di composizione, quasi a forma di un unico poema, non
uso titoli né maiuscole.
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In questo costruire
una organicità che tiene assieme tutto il libro, tante sono le cose che si
rompono e si spezzano (la crosta dei semi, la luce stessa, la pioggia…).
Come a ricordare la nostra (e del mondo) fragilità e vulnerabilità?
Si,
e a ricordare il mistero della nascita e della morte, in un susseguirsi
continuo, senza che possiamo fermare il tempo umano. E parlo del tempo umano
perché noi siamo consapevoli del suo scorrere e questo passare ininterrotto
arreca grande dolore a ognuno di noi.
Il suo passare ci porta verso la fine e non c’è persona che non soffra al
tale pensiero, almeno se è pienamente in sé. I miti, la religione, la
filosofia, la scienza e l’arte non hanno fatto altro che cercare una
spiegazione a tutto ciò, un senso a questo passare fugace verso il nulla,
senza poter accettare che si vada proprio verso il nulla.
Alla fine, però, nessuno ha certezze e decidiamo di credere a una
trascendenza se questo è per noi fondamentale, oppure di non credere a
niente, se questo non ci annienta.
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La dimensione plurale
che si sviluppa nella sua scrittura poetica sembra trovare conferma nella
sua adesione alla Compagnia delle Poete. Che valore specifico ha per la sua
personale relazione con la letteratura questa esperienza?
Non
avrei mai pensato di farne parte. Chi ha creato la Compagnia delle Poete è
Mia Lecomte, scrittrice e studiosa di grande valore, che nel tempo è
diventata una cara amica. Ma quando lei mi ha invitato a farne parte, la mia
risposta negativa fu tassativa: mai e poi mai avrei prestato la mia voce, il
mio corpo in scena alle poesie che scrivo. Ho sempre pensato che le poesie
sono di chi le legge. Mia con molta diplomazia mi ha solo suggerito di vedere
le prove di uno spettacolo che le amiche della Compagnia stavano allestendo,
nella condivisione di parole, esperienze, vite. Così sono andata a vedere e
siamo state insieme per tutto un fine settimana, in cui vedevo quelle compagne
con le mie stesse perplessità e paure, che si facevano coraggio a vicenda ed
erano belle e forti. Così sono finita dentro anche io, ma ogni volta che
facciamo uno spettacolo mi dico che sarà l’ultima volta e poi, dopo un
po’ di tempo, mi ritorna la voglia di scambiare con loro e con il pubblico
qualcosa di noi. E mi sono resa anche più consapevole di quanto siano
narrativi i miei testi lirici.
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Un’altra cosa che mi
è molto piaciuta è il modo in cui viene trattata ed affrontata la morte.
In modo molto umano, lontano dal farla essere qualcosa di cui avere paura. E
anche il dolore, quando c’è, è un dolore adulto, maturo e consapevole.
Che addirittura diventa un qualcosa di propositivo, e non semplicemente un
qualcosa da cui scappare via… è una lettura adeguata?
Mi
fa piacere che si noti questo nel libro, ma non l’ho cercato. È l’amore
che ci riporta alla memoria i momenti vissuti e che attenua e, talvolta,
lenisce il dolore.
Devo dire che il dolore vivo e acuto, non so scriverlo e penso che neanche sia
giusto farlo, che bisogna rispettare il suo esperire nostro o altrui, senza
cercare scappatoie quando ci capita. La sofferenza non è poetica, non è
poesia, ma rielaborare questa esperienza per darle un senso può diventare
parola poetica, e ritengo che la poesia, per la sua capacità di scavare
visceralmente l’animo umano, sia il linguaggio più addato per farlo.
Noto spesso che molti cercano di ingannarsi, di negare o di fuggire ad ogni
costo dai momenti difficili, e pure di negare il dolore degli altri. Io non lo
faccio, cerco un senso in tutto, raccolgo questi momenti che si incidono nel
tempo e negli spazi e penso che non scompaiano mai del tutto.
Poi mi allontano, medito, porto con me quelle ferite nel corpo e nell’anima,
affino l’orecchio per cogliere le parole, ascolto il vento che porta via
quelle voci…
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Il
libro è narrato in prima persona. Ma ci sono anche dei ‘lui’ e delle
‘lei’ che prendono vita e che portano avanti il raccontare. Chi sono?
Sono
le voci che ascolto, persone che accolgo. Sono sempre attenta alle molte voci
attorno a me. Le persone spesso dicono cose di grande intensità e bellezza e
neppure se ne accorgono.
Per “belle” non intendo solo in senso estetico. Sono belle perché
profonde, vissute, stillate lentamente da dentro. Succede anche che esprimano
un nucleo aggrovigliato e informe di senso e sia necessario districarlo e
ordinarlo in qualche modo.
Sento che in me vivono tante persone, quelle che non sono e che potrei o
vorrei essere. E vivono pure gli animali, e le piante, le pietre, i granelli
di terra, l’aria, il vento… E talvolta tutti questi esseri litigano e mi
espellono da casa.
Ma essere fuori casa, fuori dal centro della mia identità, è anch’essa una
esperienza arricchente.
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Penso
poi che il collante di tutte queste poesie, di questo scrivere, sia quello
di guardare e scoprire cosa c’è nella parte più piccola di ogni cosa, di
ogni persona, di ogni avvenimento, di ogni paesaggio. Può essere così?
È
così, come ho detto prima. Tutto per me è miracoloso perché unico, anche
una foglia, un fiore, una goccia di pioggia, la luce di ieri e quella di oggi.
Trovo molto triste che non si possa strappare dal flusso del tempo ogni
prezioso momento vissuto, ogni parola detta, ogni gesto che non si ripeterà
mai più, e la tenerezza, le mani che si sfiorano e consolano, lo sguardo di
mia mamma quando l’ho vista l’ultima volta e lei mi ha salutato come se
non fosse l’ultima.
Trovo così triste questo “spreco” di energia viscerale che penso che,
dall’inizio, con le parole, non ho fatto altro che cercare di rubare al
tempo e al nulla cose, animali e persone.
Giovanni
Fierro, Fare voci,
luglio-agosto 2020
https://farevoci.beniculturali.it/luglio-agosto-2020/
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(by
Claudio Maccherani )