Poesia
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(Dóris Nátia Cavallari, in Insieme, Brasile, 1998/99) "Vera Lúcia de Oliveira - Tempo de doer/Tempo di soffrire" Proprio
sulle pagine di questa
rivista, qualche tempo fa, Vera Lúcia de Oliveira, docente presso l'Università
di Lecce e poetessa brasiliana originaria dello Stato di São Paulo, aveva
tratto spunto da una piuttosto recente antologia di giovani poeti brasiliani
(titanico florilegio dal 'Paese della dismisura' che nei suoi ben 334 autori
nati dopo il 1945 comprendeva anche la stessa Oliveira) per formulare dubbi e
qualche lieve angoscia, scevra com'era di quell'accademica distanza teorica,
anzi, piuttosto vissuta in prima persona come spesso capita alla critica
'poetica' o, come si dice, 'rnilitante' - sul senso del fare poesia oggi in
Brasile, sulle maniere e sulle possibilità reali di praticarla, senza tuttavia
metterne mai in dubbio la necessità. La riflessione finiva col
ruotare intorno ai temi - certamente noti a chiunque abbia frequentato almeno un
po' della poesia degli ultimi centocinquant'anni, pur nella varietà dei
soggettivi riferimenti culturali -del frammento, dell'epifania, della perdita di
un centro.
Quanto alla lingua, invece, si presenta certamente in questo caso, come in ogni opera leneraria (e per giunta poetica), una forma di impasse della traduzione. Tuttavia non è cosa superflua se Vera Lúcia de Oliveira, che vive e lavora in Italia da tempo, ne ha imparato perfettamente la lingua e non è nuova a edizioni luso-italiane del suo lavoro, mette le mani avanti in una nota previa a rivendicare, sia pur moderatamente, la genesi "quasi bilingue" del libro, essendo sue anche le versioni italiane pubblicate a fronte: Questo libro è nato quasi bilingue. Mentre le poesie sgorgavano, andavo da una lingua all'altra e mi pareva che certe cose le potessi dire solo nel mio portoghese materno, intimo, viscerale, o solo nel mio italiano intrinseco, quotidiano, familiare: entrambe le lingue come porzioni di anima, di pelle, di carne e di cuore. Dunque, così come si
dichiara, il libro può essere letto: non una lettura "verticale" che
cerca il senso nella sua conclusione convenzionale a fondo pagina, bensì una
lettura 'orizzontale' che divaga e dilata la durata della poesia, salta da una
lingua all'altra e ne cerca il senso in quei movimenti e in quegli scarti. Alla
fin fine non è delle dittongazioni - come invece fa notare, ovviamente non del
tutto a torto, Franco Loi - o delle tipiche finali in 's' che si
lamenta la perdita nella versione italiana, né della celebre ma anche, ogni
tanto, piuttosto fantomatica saudade che il forestiero suol tirare in
ballo ogni qual volta si parli di letterature lusofone. Sembra invece più
interessante notare, a questo proposito, come spesso la metrica libera del verso
mantenga un passo prosodico affine, probabilmente pensato nella contingenza del
bilinguismo. Qui affinità e divergenze connaturate alle due lingue fanno un
gioco, come si sa, tutto loro, per cui il poeta/traduttore deve solo dimostrare
di essere almeno della partita.
sono altre le ambiguità più feconde di conseguenze interpretative, le quali sì trovano a pendere sul versante di una o dell'altra lingua, secondo i casì. I versi:
presentano nel verbo "choque" un’apertura che soltanto il conclusivo (e semanticamente inequivoco) "ovo" chiuderà catalizzandone il significato ("choque", in principio, rimanda anche al campo semantico dello scontro, oltre che a quello della cova; interpretazione che il testo suggerisce, smentisce nel verso immediatamente successivo, "ovo de dor", e poi, si badi bene, recupera col verso seguente nel quale si parla di un corpo da demolire: "o corpo existe para ser demolido / il corpo esiste per essere demolito"). Ma in un altro caso:
ancora una volta l'italiano
("incarnita") traduce dal brasiliano ("encravada") per
sottrazione, limitandone il campo semantico ("encravar", rispetto
all'italiano "incarnire", è parola di ben più largo uso: inchiodare,
conficcare, persino ingannare o incepparsi); limitazione che però risulta
vantaggiosa per quel lessema che richiama la carne (assente nell'originale),
quasi a voler suggerire una sorta di fastidio fisico indotto (non dimentichiamo
che 'incarnito' è detto delle unghie, non certo delle vergini, né di Dio);
significato creativamente deviante dal corso di quel componimento. Dunque
nominazione della sensazione precisa in funzione di correlativo 'basso' del
dolore metafisico ('alto'). Una contrapposizione concettuale che d'altronde
attraversa tutto il libro, sin dal titolo, con quell'opposizione doer/soffrire
in cui spetta stavolta al brasiliano il compito di spaziare ambiguamente nella
vasta gamma del/i dolore/i ('doer' abbraccia anche un registro linguistico più
banale e quotidiano che è meno comune nell'italiano 'soffrire': può 'doer'
anche una puntura di spillo o un'unghia, per l'appunto, incarnita). (Marcello Sacco, "Vera Lúcia de Oliveira - Tempo de doer/Tempo di soffrire", in Ricerca Research Recherche, Università degli Studi di Lecce, Lecce, Italia, n.4, 1998, pp.133-140) "Le riflessioni sul dolore di Vera Lúcia de Oliveira" Tre anni fa usciva, a mia cura, per i tipi Antonio Pellicani di Roma, un’antologia poetica bilingue di Armindo Trevisan – poeta brasiliano dello stato di Rio Grande do Sul, appartenente alla cosiddetta generazione del ‘60. S’inaugurava con quel volume una collana – «Brasiliana» – che avrebbe ospitato esclusivamente opere di poeti e narratori brasiliani. Nella presentazione scrivevo che il Brasile è fondamentalmente un microcontinente, con tutte le prerogative, e quindi le diversità – geomorfologiche, climatiche, etniche, culturali e, per certi versi, anche linguistiche – caratterizzanti un continente. Un’eterogeneità di fondo che non può non avere influito e continuare ad influire, positivamente, sulla sua letteratura, poiché sono le diversità a dare, in massima parte, la misura delle potenzialità letterarie di un determinato Paese. E quella brasiliana, proprio perché molto composita e polifonica, è una letteratura di grande valore. Un valore che non si arresta a quei nomi ormai consacrati in campo internazionale (i vari Machado de Assis, Manuel Bandeira, Graciliano Ramos, Guimães Rosa, Carlos Drumond de Andrade, Cecília Meireles, Clarice Lispector, Cabral de Melo Neto, Jorge Amado, senza dimenticare, il fenomeno, di grandissima attualità, Paulo Coelho), ma si estende a tanti altri autori, ognuno con il suo spazio, piccolo o grande, già ritagliato nella letteratura brasiliana contemporanea. Eppure, poco o per nulla noti fuori dei confini del Brasile e, non di rado, scarsamente noti perfino fuori dei confini del loro stesso stato di appartenenza. Vera Lúcia de Oliveira esordisce come poetessa nel 1981, in un’antologia a più voci (Veia Poética, São Paulo). Due anni dopo, nel 1983, pubblica il suo primo libro di poesie, A porta range no fim do corredor (São Paulo). In Italia, dove ormai vive da diversi anni, ha pubblicato tre raccolte di versi: Geografie d’Ombra (Spinea, 1989), con prefazione di Luciana Stegagno Picchio, Pedaços / Pezzi (Cortona, 1992) e Tempo de doer / Tempo di soffrire (Roma, 1998), uscita nella collana succitata e che si avvale di una puntuale e dotta presentazione di Franco Loi. Su Vera Lúcia de Oliveira hanno espresso giudizi entusiastici alcuni dei maggiori critici letterari, nonché scrittori e poeti, sia portoghesi e brasiliani (come Manuel Ferreira, Carlos Nejar, Fábio Lucas, Lêdo Ivo e il nobel José Saramago), sia italiani (oltre ai già citati Luciana Stegagno Picchio e Franco Loi, ricordo, tra gli altri, Barbara Spaggiari e Oreste Macrì). Scrive Manuel Ferreira, prestigioso scrittore e critico portoghese, che le coordinate della poesia della Oliveira sono «l’amore, la tenerezza, una sofferenza, una certa lacerazione, direi nostalgia, la maturità dei dolori e dei sapori delle cose, delle persone, coinvolte nel quotidiano del Poeta e di tutti noi. Sono presenti in questa poesia una persistenza disincantata e la necessità del rincontro poetico con la solitudine, con le risonanze notturne della vita. E ancora metafore e immagini, che danno maggior ricchezza a questa poesia piena d’incanto e di splendore». Oreste Macrí, poeta anch’egli, oltre che ispanista di fama, afferma che è una «poesia estremamente delicata, ma essenziale e rigorosa nel suo accento di verità, coincidendo musica verbale e sentimento nella più pura tradizione simbolista-intimista. L’autrice non tenta mai di fingere la vena lirico-espressiva, e questa giustezza d’equivalenza mi ha sorpreso: sintonia natura-uomo, identità ricorrente morte-vita, pathos del seme e rientro all’origine, lacerazione e frantumazione dell’io che confida solo in quel che è per sé, una traccia vera della vita indecifrata». Credo che in questi due profili sia riassunta la cifra di Vera Lúcia de Oliveira. Vale a dire, ritroviamo condensati i principali elementi caratterizzanti i suoi versi, inclusi quelli della sua ultima raccolta. In primo luogo, delicatezza e umiltà, che non vuol dire, assolutamente, assenza di nerbo, tutt’altro: la mia infanzia era piena di treni / pure l’adolescenza / si riempì di ruote // al mattino mi sveglio / apprendo: / la vita c’è/ è // paralisi è il nome più doloroso che ha la morte («Ruote», p. 107); il cielo è popolato da Dei / (a nostra immagine e somiglianza) // i vinti optano per un Dio minore / che abita negli scantinati del cielo / i ricchi / per un Dio che viaggia in prima classe / e ignora i mutilati // gli Dei sono sempre in guerra ma chi / vince è il Dio dei vincitori («Gli Dei», p. 81); quando io morrò / trucidate il dolore / liberate il corpo / dal dolore // che l’anima non porti / fragilità / (voci dolenti nel vento / propensione ai tagli) // che non evochi ombre / sia il nulla o no // possa guardare la sera / ammalarsi / senza coprire il volto / senza spavento / terrore («Quando io morrò», p. 113). Poi, aderenza al reale e coscienza della frammentazione della realtà e del proprio io ad un tempo: la paralisi invade tutto / la mia anima / perde i freni / la mia anima si agita / sono il contrario della forma / e non possiedo nulla perché tutto / è già dentro sé stesso // in ciò che esamino si profila il massiccio / l’obesità inonda le cose / di contingenza / quelle che tocco / contemplo / desidero avere // pesare è morire? / l’immobilità accetta definizioni / tutto si distingue perché non cerca / più di distinguersi / la terra compatta / occupa il posto che è suo / e nulla più la prolunga / o inonda di fragilità («Paralisi», p. 37). E ancora l’esplorazione, a mo’ di catarsi, di un quotidiano fatto di sofferenze e dolori, propri e altrui, tanto di uomini quanto di animali e cose: dentro di me / l’occulto / amore // non ti do se non / ciò che sto tessendo / di perdita in perdita // ciò che dono già si distrugge / ciò che dono corrompe / il dono («L’indicibile», p. 109); la fuori il gatto si equilibra / sul muro / il vento strappa il mais / appena nato / nel vaso / la via / si coagula // (la città si bagna di atrocità) // si prevedono migrazioni atrofizzate / viaggi intorno ai piedi / miagolii e divagazioni nel tempo / tendente all’obliterato («Previsioni», p. 61). Oggetti che contribuiscono, a volte, a creare atmosfere e paesaggi d’intensa allusività sociale: palafitte / per piantare il dolore nello stagno / bagnare la miseria / rodere la guerra rodendo / la lotta // vedere se i vermi in conclave / staccano finalmente / dal filo della vita le mani equilibriste / vedere se rodono anche i buchi / anche i cocci di vetro di ciò / che alimenta la fame («Palafitte», p. 19). Al contempo, accanto alla sofferenza e al dolore, è presente l’urgente e disperata ricerca, quasi sempre sotto forma di metafora, del significato della vita, sia individuale sia collettiva: sono in pace con il mondo anche / una carro armato si stanca / della guerra anche un uccello / si ferma / per riposare // e poi oggi il cielo è di un / azzurro che fa male agli occhi / acuto che si rimane lì / pancia all’aria / ad ammirare le rondini / che volteggiano / a immaginare ciò che pensano là in alto / ciò che / sanno / se sanno che sto in pace con il mondo / che volteggiano lassù anche per me («Rondini», p. 133); fanno capriole / dal monte / in candida letizia // tappeto per terra foracchiato di verde / rotondetti, orecchie dritte / bocche vaste a prendere dal mattino / ciò che può la vita prodigare («Fiori», p. 135); cime verdi / si muovono / sotto un cielo carico / di pioggia / giocano / che siano loro a dipingere/ i lampi e i loro rombi («Alberi», p. 151). Una conferma di tutto questo ci è data peraltro dalla stessa autrice, la quale, in merito a Tempo de doer / Tempo di soffrire, ha avuto modo di confidare, in una lettera, a Franco Loi, quanto segue: «Il libro è una riflessione sul dolore, risultato di un processo che dura da diversi anni. Una riflessione sul dolore fisico, metafisico, sul dolore di animali, piante, cose. Ho suddiviso la raccolta in tre parti. Fra la prima e la seconda parte, la differenza maggiore sta forse nel tono più soggettivo della seconda, mentre la prima riguarda l’essere in generale, appartenente a qualsiasi nazione o continente. La terza parte è il tentativo di cercare “deviazioni” dal dolore» (p. 5). Fin qui le parole di Vera Lúcia de Oliveira. Parole, tuttavia, avverte Franco Loi, che non devono trarre in inganno quanto alla natura di questo dolore. Dolore che non è espresso in forma «di pianto o percorsi di pietà o di retorica della sofferenza» (idem). La maniera di come Vera ragiona nell’«affrontare se stessa e il mondo non lascia spazio agli scivoli sentimentali, alle nostalgie troppo accentuate, agli strazi e alle commiserazioni di sé» (p. 6). «Non c’è compiacimento – chiosa sempre Franco Loi –, non c’è retorica del dolore: anche la sofferenza avviene, come il male, il bene, la colpa, e avviene finché non siamo in grado di comprenderne le ragioni, le nostre responsabilità, finché non ci affidiamo a quel “vento” che corre il mondo, finché non ci lasciamo coinvolgere nel disegno della libertà» (p. 9). È a questo punto che viene in soccorso di Vera Lúcia de Oliveira la sua religiosità. Una religiosità tutta terrena – alla Maria Rilke per intenderci –, che si esplica in una specie di mistica delle cose concrete. Certo, la visione che la poetessa ha della vita non è positiva o, quantomeno, è molto più negativa che positiva. Probabilmente perché gliela impongono sia le sue esperienze, il suo vissuto, sia una realtà che non di rado riserva amare sorprese, dispensando delusioni e dolori. Ma probabilmente nessuna lezione di vita è più stimolante di quella che nasce dal pessimismo. Ciò spiega il perché la Oliveira non rinunci a cercare, come recita il titolo della terza ed ultima parte della raccolta, «deviazioni dal soffrire». E forse, a ben riflettere, queste deviazioni altro non sono che la capacità, da parte dell’uomo, di attutire la realtà, trasferendola in un invisibile spazio poetico, identificato e difeso dal verbo poetico. Quanto all’aspetto prettamente formale ed espressivo, questa bellissima raccolta è caratterizzata dal bilinguismo della sua autrice. Un registro che le permette sia di versificare ora in portoghese ora in italiano sia di autotradursi, dall’una e dall’altra lingua. Vantaggio non da poco per il lettore, tanto brasiliano quanto italiano, poiché ha la fortuna di trovarsi di fronte a ottime traduzioni, quali quelle della raccolta in oggetto. Ma la Oliveira – c’è da chiedersi – come vive tale suo bilinguismo? Mi lascio soccorrere dalla Stegagno Picchio, che scrive, nella prefazione a Geografia d’Ombra: «brasiliana di nascita, italiana per acclimatazione e scelta, Vera Lúcia de Oliveira ha il privilegio e la croce di essere bilingue. Il privilegio perché la diglossia o, addirittura, per quanto possibile, il plurilinguismo, amplia la cosmovisione di chi scrive, ne estende la gamma coloristica e musicale. Ma anche la croce: perché se chi è bilingue ha due cuori, è pur vero che, ogniqualvolta è obbligato a scegliere una delle due valenze espressive, avverte nel suo intimo come una mutilazione». E in questo senso, un’ulteriore spiegazione ci è data dalla stessa Oliveira, in una breve e significativa nota inserita a corredo delle poesie di Tempo de doer / Tempo di soffrire: «Questo libro è nato quasi bilingue. Mentre le poesie sgorgavano, andavo da una lingua all’altra e mi pareva che certe cose le potessi dire solo nel mio portoghese materno, intimo, viscerale, o solo nel mio italiano intrinseco, quotidiano, familiare: entrambe le lingue come porzioni di anima, di pelle, di carne e di cuore. «Molto ho riflettuto sul titolo da dare in italiano. Tempo de doer era il titolo originale, attorno al quale si sono condensati pian piano quei grumi di vita che sono i testi: un titolo che mi è venuto dalla frequentazione di Miguilim, uno dei libri più intensi di Guimarães Rosa. Ma in italiano “Tempo di dolere” o “Tempo del dolore”, mi lasciavano perplessa. Alla fine, ho optato per Tempo di soffrire, che con le sue connotazioni bibliche è abbastanza ampio da incorporare tutta la complessità dell’argomento sul quale si sofferma la raccolta» (p. 12). (Brunello De Cusatis, "Le riflessioni sul dolore di Vera Lúcia de Oliveira", presentazione di "Tempo de doer/Tempo di soffrire", Università per Stranieri di Perugia, 12 marzo 1999 e in Letteratura – Tradizione. Trimestrale letterario, Pesaro, Italia, n.7, luglio 1999, p.31) "Tempo de doer/Tempo di soffrire" Tempo de Doer / Tempo di soffrire è un libro che si svela piano piano al lettore: ho interrotto infatti varie volte e varie volte ho ripreso dall'inizio la lettura. E questo soprattutto per due ragioni. Innanzitutto perché, a differenza di Franco Loi, non riuscivo a trovare nelle parole dell'autrice un "sano distacco" dal "soffrire": mi sembrava anzi, leggendole, di vederla vagare ovunque e a ogni ora del giorno, tormentandosi per la scoperta del dolore in qualsiasi essere, vivente o no. Inoltre, l'uso frequente di espressioni come "trafitte", "conficcate / nel sangue", "le cose crespe / sventrate"... mi faceva sentire a diretto contatto con la sofferenza di cui, istintivamente, conoscendo la mia tendenza a somatizzarne persino l'immagine o il racconto, cerco invece di tenere lontano anche il pensiero. È stato solo quando, dopo un certo tempo, ho letto le due poesie, "Dolore (I)" e "Dolore (II)", che l'autrice mi è apparsa impegnata a studiare il dolore, appunto, come dall'esterno, quasi che si trattasse per lei di un lavoro di ricerca, lavoro conclusosi con la scoperta del fatto che esso è sì dotato di una sua volontà, progetta le sue azioni crudeli, ma incute anche meno timore di ciò che non si conosce bene ed è quindi imprevedibile:
Quanto detto mi ha permesso, finalmente; d'iniziare la lettura della seconda sezione del libro. Ho verificato che, come spiega l'autrice nella prefazione, le poesie di "Tagli" hanno un "tono più soggettivo". Le sue parole, inoltre, sono o danno l'impressione di essere dirette a qualcuno a cui, in qualche caso, chiede anche aiuto ("quando io morrò (...) / liberate il corpo / dal dolore"). E così mi è sembrato quasi d'essere chiamata a partecipare insieme alle sue sensazioni e, stranamente, anche se sembra parlare proprio del suo dolore, per il fatto, forse, che non è più sola di fronte alle ferite del mondo, come nella prima parte, ho avuto l'impressione di vederla meno sofferente. Il titolo della terza sezione del volume mi ha attratto, a questo punto, come succede con quelle scritte luminose che appaiono all'improvviso nel buio, quando viaggiamo. E così ho scoperto le (non molto numerose, invero) "Deviazioni dal soffrire" di Vera Lúcia, deviazioni perlopiù casuali e non programmabili ("e poi oggi il cielo è di un / azzurro che fa male agli occhi"), casuali e non programmabili come il disegno e il movimento delle nuvole nel cielo della bellissima fotografia di Claudio Maccherani, il marito dell'autrice, in copertina o come sono in genere i momento di tregua che il dolore concede a tutti gli esseri umani. Adesso, dopo questo percorso, le poesie di Tempo de Doer / Tempo di soffrire si trovano stabilmente nel mio comodino e ogni volta che le rileggo mi sembrano più belle della precedente. (Vittoria Bartolucci, "Tempo de doer/Tempo di soffrire", in Ricerca Research Recherche, Università degli Studi di Lecce, Lecce, Italia, n.5, 1999, pp.596-59) Antônio Lázaro de Almeida Prado "Ave, Poesia, morituri te salutant ..." Volto, com grande alegria, a tratar da poesia (de alto nível) de Vera Lúcia de Oliveira. E o faço com a mesma emoção que me causaram seus primeiros poemas, ainda inéditos, que ela me deu a honra de ler.Recordo-me de haver dito a ela que seus poemas iniciais eram prova provada de uma autêntica vocação poética, mas que, se não me equivocava, ganhariam eles, se ela os submetesse a uma reelaboração, que se orientasse por duas vertentes: menor mobilização de versos, e maior potencialização dos efeitos expressivos. Creio que não me equivoquei, pois percebi, de pronto, que essa era a vocação autêntica da poetisa Vera Lúcia: dar à própria dor a modulação dos cantos, o que os tornaria (aos poemas) dignos daquela "significação de alegria", de que falou Leopardi no "Elogio degli uccelli". Ao ler, agora, Tempo (De Doer) di Soffire, Roma, Antonio Pellicani Editore, 1998, 168p, vejo que o itinerário poético de Vera Lúcia de Oliveira apresenta, progressivamente, alto poder de concentração e de expressividade, qual se poderia esperar de uma jovem eleita para a alegria e para a dolorosa percepção do natural destino de consunção, inscrito no cerne de todos os seres, como o percebera Virgilio no "Sunt lacrimae rerum". Mas o êxito expressivo de Vera Lúcia de Oliveira (êxito que se percebe em dupla modulação: em português e em italiano) reside, precisamente, em impor ao impacto (natural) da dor a rigorosa lucidez (artística) do domínio poético. E é dessa operação, que poderíamos caracterizar como leopardiana, que resultam a beleza, a modulada contenção e o extraordinário vigor dos poemas de Vera Lúcia. Creio que Vera Lucia de Oliveira, com uma precocidade que nos dá inveja, atingiu, já, aquele nível de dicção poética, que, com humilde autenticidade, Ovidio declara haver conseguido: "tudo quanto ensaiava dizer, resultava em versos". A percepção desse destino de consunção que como um inevitável vento, perpassa por todas as criaturas, Vera Lúcia consegue expressá-la, com rara felicidade e serena lucidez. Essa serena isenção, que impõe à dor um ritmo a um só tempo de pudor e de lucidez expressiva, conseguiu-a Vera Lúcia de Oliveira, sabe Deus a custa de que íntimos tremores. Mas o fato é que essa dor cósmica é, contemporaneamente, verificável e marcada pelo vetor de superação. Nesse sentido Vera Lúcia se faz fraterna companheira da Poesia de Murilo Mendes, de Salvatore Quasimodo e de Ungaretti. O que é, vale constatá-lo, altissima e digna companhia. Visitada pelo sopro de poesia (pelo qual se paga um preço, quase direi ascético, de dor contida e ritmada), Vera Lúcia de Oliveira ministra-nos a paradoxal (e leopardiana) "signihcação de alegria", atingível, somente por aqueles marcados, desde o nascimento, pela insuprimível ânsia de expressar e ultrapassar o estigma das dores e do destino de consunção, inscritos no cerne de tudo quanto foi criado ... "Ave, Poesia, morituri te salutant"... (Antônio Lázaro de Almeida Prado, in Istrumento Critico - Revista de Estudos Linguísticos e Literários, Universidade Federal de Rondônia, Vilhena, Brasile, 11/1999, pp.207-223) Esattamente
dieci anni fa usciva, per le edizioni Fonéma, il libro di poesie della de
Oliveira Geografie d’ombra e,
presentandolo a Perugia, dissi che la ”raccolta denuncia l’urgenza, il
bisogno di misurarsi con gli interstizi più angusti, laddove un tormentato nomadismo testimonia un percorso che ricorda il moto di deriva”. (Pino Bonanno, presentazione del volume Tempo de doer/Tempo di soffrire, Venezia, Italia, 12/11/1999) A autora do livro chama-se Vera Lúcia de Oliveira. Livro de poesia, o quinto da coleção Brasiliana (Antonio Pellicani Editore, Roma, 1998): por isso bilíngüe: Tempo de Doer/Tempo di Soffrire. Os poemas são curtos (apenas um vai pouco além de uma página); os versos, quase sempre em disposição liberta da regularidade estrófica, poucas vezes ultrapassam as oito sílabas. Por isso, quando os lemos, a primeira impressão é a de frases cortadas, melodias suspensas, notas soltas, imagens independentes, pedaços da realidade. Livro bom de ler, mas não é gostoso, não é daqueles que deixam o leitor satisfeito de si mesmo, não é para gente que envelhece sem maldade. Conforme a autora deixa claro na epígrafe, o título foi inspirado em Guimarães Rosa (Campo Geral – Corpo de Baile). Quando nos deparamos com estas palavras sobre dor ou sofrimento logo nos lembramos dos românticos e de alguns poemas chorosos ou cheio de manhas. E o que encontramos? Encontramos poemas-coisas, estranhos à explicitação dos sentimentos, embora haja lá uma espécie de dor escondida, de dilaceração oculta, contida, resistente, perceptível apenas por alguns indícios de perda, de corrosão, de dissolução, de universo fragmentário ou residual. Fico tentado a dizer que a melhor interpretação do livro está sintetizada no último poema, o curtíssimo e irônico “Posvérbio”
depois de ter puído a pedra a água perdeu o emprego
Talvez Vera Lúcia (ou o poeta que ela forjou para fazer os poemas) esteja querendo nos revelar, com esses dois versos que invertem o provérbio antigo (água mole em pedra dura tanto bate até que fura), o seu processo poético: o sofrimento da poesia não está no que ela exprime ou apenas no que expressa, mas naquele fazer que busca desnudar a palavra de toda a carga sensível ou sentimental, a fim de mostrar, com objetividade e crueza, a impotência comunicativa da linguagem: esta tem que se descarnar para ser poesia. “Posvérbio” assinala, estrategicamente, o percurso do livro que se divide em três partes: Nos vãos do tijolo, Cortes e Desvios de doer. Forçando a mão (bendito gerúndio), temos aí três constelações temáticas, que nos fazem lembrar um caminho ascético que começa com a corrosão material e chega à purificação, depois de passar pelo estágio do sofrimento. Tudo isso são, porém, impressões de leitura. O melhor é, pois, ler o livro, do qual destacamos três pedras de toque:
O corpo de um torturado escava através dos séculos sua intensidade de dor e morte mas Deus, para quem não existe a história como atura o horror desse instante onde só o que muda é a boca que grita? (A História, p. 64)
uma cortina cinza a alma não sabe se foi violentada (Dúvida, p. 128)
descolada do osso (Noite Domada)
(Antonio
Manoel, sezione “Quase
desconhecidos,
2005", in "Vitrine Literária", 21/09/2005, Inizio pagina corrente Critica Poesia (by Claudio Maccherani ) |