Poesia
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Cara Vera, il libro è molto bello e ti proietta tra i grandi della poesia italiana contemporanea. (Alessio Brandolini, comunicazione personale del 12/04/2011) "Mappe di poesia autentica" Accanto alla
muta fiumana di parole scritte e stampate per esibizione, per civetteria, per
orgoglio, ci sono alcuni libri o momenti di libri che afferrano per la gola. (Davide
Rondoni, "Mappe di poesia autentica",
in "Il Sole 24 Ore", 12/04/2011 "'La carne quando è sola' di Vera Lúcia de Oliveira"
La carne quando è sola è una raccolta di poesia della poetessa brasiliana, Vera Lucia de Oliveira. La carne quando è sola un vero libro "potente e intenso" che mescola due tradizioni culturali opposte: poesia del corpo, ma anche incontro-scontro con la vita, animata da una idea di un' oltre vita, intesa come contraddittorio e sfuggente. Viene posto l'accento sulla transitorietà del nostro paesaggio terreno come accadimento ineluttabile per tutte le creature, cosa che può dar luogo ad un'impellente infinito desiderio di ricerca di senso, che si esaurisce in piccole cose che annientano ogni forma di speranza. La luce si riflette sui corpi appartati, lontani dalla vita, dagli affetti, si tratta di una poesia che da voce all’anima delle cose. Una poesia spirituale, anche in assenza di Dio, di fede, una storia costituita da versi, grumi narrativi che delineano un mondo particolare fatto da luoghi, panorami, case e personaggi. Uomini, donne, anziani e bambini, descritti con le loro angosce paure, senza sapere di che pianeta o in che epoca fanno parte.
Individui diversi raccontano piccole storie dolorose che esprimono il male di vivere e lo riflettono in tutto quello che toccano. La carne quando è sola trascina verso un tempo lontano, quello delle origini per poi rimbalzare nel presente. È una poesia potente e forte che da voce all’assenza e mescola la vita e la morte il vuoto e il corpo, dove il dolore guarda il mondo con occhi impregnati di odio parlando di se stesso. (Costanza
Bucci, "La carne quando è sola di Vera Lúcia de Oliveira",
in "Critica Letteraria", 19/05/2011 "Ridefinire il 'genere': ipotesi sulla poesia femminile italiana contemporanea" ITALIAN POETRY REVIEW, Plurilingual Journal of Creativity and Criticism, Anno 2010 - N. 5,
Il saggio analizza due raccolte di poesie: la prima, del 2010, Emma Pretti, "I giorni chiamati nemici"; la seconda, del 2011, di Vera Lucia De Oliveira, "La carne quando è sola". Si tenta di tracciare un nuovo percorso per la poesia femminile italiana contemporanea.
Le cose, a volte, sono belle e felici: "il mare azzurro d’estate il vento/fra i corridoi il bianco delle case illuminate dal sole", p. 15. Poi, improvvisamente, esse si mettono a soffrire, "come se si fossero pentite della loro felicità”. Ecco allora il regno della caducità e dello sfiorire; nemmeno l’amore si salva, l’amore che non basta mai; chi non taglia il cordone non può assaggiare l’ebbrezza del distacco, rimane rinchiuso nella casa, e se esce senza indossare la dura corazza del distacco, senza aver permesso all’anima il necessario apprendistato della lucidità, finirà per conoscere la paura, l’inadeguatezza del vivere. Questo ci racconta il libro: la pienezza del corpo senziente e i pegni che esso deve pagare all’esperienza: entrare nel corpo per essere corpo, vuol dire non aver "mai voluto vedere l’alba/sapendo di doverla pagare/così cara", p. 20. Questo io è, in realtà, tanti; ognuno può raccontare una storia, fare un resoconto della sua carne; così i corpi sono lasciati soli, sembrano parlare nella condizione di uno sfiorire, di un trovarsi in un limite. Perché, mentre il corpo giovane non sa di essere, la malattia e gli anni aggiunti al calendario acuiscono la percezione, quasi che noi avessimo coscienza del corpo solo quando il vestito non calza più all’anima e la fa sentire pronta per l’avventura di un nuovo corpo desiderante.
dalla finestra sentiva il rumore del vento la vita nel ventre pulsava i rami sul vetro come unghie appuntite laceravano la luce convocavano Dio per vedere la carne quando è sola p. 23
Qui si spiega il senso che hanno le apparizioni e le dicerie, quei momenti, cioè, della nostra vita, in cui il corpo cerca disperatamente un suo rinnovato splendore e non lo trova; in cui, se una gamba è malata, l’anima finisce essa stessa per zoppicare, per vivere quasi per sottrazione; vivere solo un poco.
camminare nel buio incespicando a fatica non si raggiunge l’uscita non si fa che girare in cerchio barcollare sui lembi della stessa ferita p. 29
In questa dettagliata descrizione di gesti franti, di fatica a proseguire verso la conclusione, lo sguardo, come ritorto, realizza una visione al contrario; a luce viva, impudica. Ed è una luce che non salva neanche la presunta capacità del pensiero a rischiarare, laddove, paradossalmente, porsi la domanda più semplice: "che cos’è?", finisce per scatenare il ghigno della nostra ignoranza. I passeri che volteggiano sui morti a raccogliere qualche chicco caduto da un mazzetto di fiori, non pensano la loro salvezza ma la cantano; una gioia che agli uomini è data solo nella preghiera di lode. L’essere si è espresso in tanti visi e voci, si è allargato, ha conquistato letteralmente spazio, per cui la morte è un contraltare, necessaria a rimpicciolire per far posto al manifestarsi delle forme. Alcuni testi accelerano l’antipietà dell’indifferenza: "i giovani non hanno il senso del dolore/si figurano i vecchi come vogliono", p.40; "pareva che il mondo si fosse animato/di una forza che succhiava tutto/verso il basso non era invano/che il letto si apriva per accogliere/i corpi che cercavano il suolo", p.45; "se mi avesse amato/disse così ad un tratto/sarei stato felice/persino di morire", p. 41.
Il dolore delle cose che vivono è tale perché si tratta di una legge naturale scompensata, che non si basa, cioè, sul principio naturale di causa effetto - subisco il dolore perché questo viene da un prima - ma perché il dolore è sempre: un evento che si ripete. Così, se ci fosse giustizia e legge, "le anime piccole dovrebbero andare in cielo" e "i piccoli corpi dovrebbero resuscitare". La conseguenza di questo squilibrio di giudizio ontologico, o forse solo dell’umano genere, è l’odio, la logica ferrea del male contro la fragilità dei propositi buoni, della costruzione di un senso. L’odio diventa così l’arma per far splendere il corpo martoriato, le sue piaghe irrorate con l’acido e l’aceto. E’ il corpo, oggetto sconcio del creato che lascia di sé solo una croce da apporre sul calendario.
Niente si salva in questa spietata e quotidiana discesa agli inferi del corpo senziente, mostrato, finanche dopo la morte, come l’icona, o il trofeo, del grido umano contro Dio, un dio che si è incarnato nel corpo di donna bruciato per sacrificio, perché il Dio dell’universo lo attraversi, se ne faccia tana, e invece il corpo vorrebbe farsi tempio di questo affronto, di questa richiesta immane. Ma perché Dio ha messo nel corpo la fame se non c’è pane? Cosa si salva di noi? Che cosa ci salva? E’ la domanda che mi pongo dopo la lettura di ogni libro che sappia interrogare il lettore, la stessa dopo altri libri che nominano il corpo con lucidità e pietà; per esempio il recentissimo lavoro di Mauro Germani, "Terra estrema"; non mostrandone gli avanzi dati in pasto ai vermi ma la durezza di una domanda semplice, la più semplice di tutte, impressa con dolore sul petto di ognuno, ereditata dall’ignoranza di essere: "Mamma/come si manda giù/la vita?". (Sebastiano
Aglieco, "La carne quando è sola", in "Samgha", giugno 2011 "La carne quando è sola, di Vera Lúcia de Oliveira", in Officina della poesia [16] di Nicola Imbraguglio
La carne quando è sola è il titolo dell'ultima raccolta di poesie di Vera Lucia de Oliveira, pubblicata dalla Società editrice fiorentina, e vincitrice del premio internazionale di poesia Pietro Alinari. Di questo libro ha scritto Davide Rondoni sul Sole 24 ore: - Un calvario tra mormorio e grido, pudore e durezza, un'inchiesta sul morire di una persona cara. Qui, scrive il bravo studioso e poeta Alessandro Polcri, si sente “il grado zero della speranza”. Paolo Valesio scrive nella premessa al libro: "La de Oliveira osa scrivere un canzoniere d'amore, anche se di tipo particolare, un amore coniugato con la malattia e la sofferenza, connesso ai due poli della nascita e della vecchiaia, e che si esprime a volte attraverso una soggettività maschile" .Nel presentare i versi Alessio Brandolini scrive: "È una storia in versi, un flusso intensissimo di grumi narrativi che tracciano un mondo particolare, con i suoi luoghi e personaggi, convinzioni e speranze. A parlare sono i tanti protagonisti di queste vicende, con le loro paure e manie, uomini e donne, anziani e malati. Non si sa di che parte del pianeta, in che tempo storico". L'intera raccolta muove da una domanda: cosa si sa del dolore ? E ogni singola voce ne individua una personale declinazione, ne illumina una sfaccettatura, la pone dalla sua ristretta angolazione. Ne deriva una coralità drammatica, una moltitudine di piccole voci ognuna impigliata dentro una privata sofferenza. La poesia sottolinea l'umanità di queste voci, la comune appartenenza, l'identico mondo all'interno del quale ci muoviamo, quella che spinge a dire: quanto
era bello il mare azzurro d'estate il vento
Si rinnova l'accorata delusione che sorge dalla constatazione del dolore, la necessità di affrontare il mondo armati di corazza, la paura scoperta da bambini che non ci abbandona crescendo: ma l'anima aveva paura di tutto e tutto era pronto a ferirla. Sorgente di dolore si scopre anche l'amore: perché
Dio me l'avrà messo nel cuore ? Come scrive Vincenzo Guarracino a proposito di una precedente raccolta, - Ci troviamo di fronte a una concezione molto personale del valore catartico e salvifico del linguaggio, di un linguaggio proteso sull'abisso e tutto fatto di parole minuscole, di dimessa quotidianità e devozione al male luminoso della vita, al deposito buio capace di tramutarsi in flusso di canto.
il
poeta Sandro Penna [Modificato
da ezechiele,lupo3 30/06/2011 19:38] La
carne quando è sola è il titolo dell'ultima raccolta di poesie di Vera
Lucia de Oliveira, pubblicata dalla Società Editrice Fiorentina, e vincitrice
del premio internazionale di poesia Pietro Alinari.
quanto
era bello il mare azzurro d'estate il vento
Si rinnova l'accorata delusione che sorge dalla constatazione del dolore, la necessità di affrontare il mondo armati di corazza, la paura scoperta da bambini che non ci abbandona crescendo:
ma
l'anima aveva paura di tutto e tutto era
Sorgente
di dolore si scopre anche l'amore: - perché Dio me l'avrà messo nel cuore?
-
Come scrive Vincenzo Guarracino a proposito di una precedente raccolta: - Ci troviamo di fronte a una concezione molto personale del valore catartico e salvifico del linguaggio, di un linguaggio proteso sull'abisso e tutto fatto di parole minuscole, di dimessa quotidianità e devozione al male luminoso della vita, al deposito buio capace di tramutarsi in flusso di canto. -
il
poeta Sandro Penna
[anticipazione
di Paolo Polvani in "La scrittura meridiana", 03/10/2009, (Paolo
Polvani, "La carne quando è sola", in "La Recherche", 01/07/2011, Alcuni commenti a "Sei poesie, Vera Lúcia de Oliveira", "La Recherche", 25/07/2011: Vera
Lucia de Oliveira è una poetessa confermata che maschera sotto visioni dolci e
un morbido fluire l’asprezza della vita, le storture. Davvero potenti queste poesie del dolore fisico e, conseguentemente, spirituale: un punto di vista lucido e carnale, che urla nella voce della poetessa. Grazie per la proposta.(Loredana Savelli, 25/07/2011) Davvero
forti, commoventi, umanissime (e perciò stesso autenticamente poesie) questi
sei testi di Vera Lùcia de Oliveira. Trovo
perfette le parole che Vincenzo Guarracino ha scritto nella presentazione a un
libro precedente di vera, "La guarigione", edito dalla Fenice
di Senigallia nel 2000: Delicate e nella loro delicatezza assolutamente efficaci; pennellate di luci e ombre. (Liliana Zinetti, 27/07/2011) Bellissime...
se esistesse la perfezione, le direi perfette! In particolare, mi ha commossa e
colpita questa: È raro leggere poesie così belle e potenti. Grazie. (Lorena Turri, 30/07/2011) "Dalla
finestra sentiva il rumore del vento / la vita nel ventre pulsava / i rami sul
vetro come unghie / appuntite laceravano la luce / convocavano Dio per
vedere / la carne quando è sola". Questa poetessa, con i suoi versi, non poteva non attirare la mia attenzione - e ringrazio Paolo per averla proposta alla nostra attenzione -, principalmente per un duplice motivo. Il primo è che i suoi versi sono tipicamente liberi dalla risonanza poetica dell’occidente europeo, in particolar modo dell’Italia, dove la poesia spesso versa in condizioni di chiusura atroce su schemi prestabiliti da una sorta di moda che aggrava gli stili e deteriora i contenuti, e si alimenta invece delle vastità, sia quelle spaziali territoriali, tipiche del Brasile sia quelle oceaniche sulle quali il Brasile si affaccia fino ad agganciare il Portogallo, altra terra solare e aperta sulla via di fuga oceanica, e trovando lì una importante sponda di poeti di grandissima levatura quali Sophia de Mello, Herberto Helder, ecc.; inoltre la poetica di Vera sembra risentire del fervore della diversità culturale che caratterizza il Brasile e lo rende terra di gioia e dolore, che lo riveste di contraddizioni assurde ma lo rende anche una terra in cui la mente poetica può frizzare di vera passione per la vita alimentata da una sensibilità tutta particolare sulla "carne" e la solitudine della dei corpi. Sono bellissimi i versi proposti da Paolo:
quanto
era bello il mare azzurro d’estate il vento
Infatti è qui che risiede il secondo motivo per cui sono attratto da questa poetessa, in semplici quattro versi è riuscita a sintetizzare una esperienza attualissima per me, che è poi l’esperienza di ogni uomo che vive nel dolore e nella sofferenza, quando le cose stesse, prima illuminate da un sole interiore che le rendeva gioiose, si sformano, sotto la pressione dell’animo umano che vive la sua crisi esistenziale, quasi pentendosi, le cose, della loro felicità. Tale particolare illuminato rapporto tra il corpo e il dolore, ho potuto leggerlo in alcuni poemi dell’amico poeta brasiliano Heleno Alfonso de Oliveira, ma un dolore centrato sull’incontro di diversità culturali e sulla nostalgia per le proprie origini, ma quella è un’altra storia. (Roberto
Maggiani, commento al testo di Paolo Polvani, "La carne quando è sola",
in "La Recherche", 03/07/2011,
Il mondo di Vera Lucia de Oliveira, poetessa bilingue, nota e apprezzata sia in Italia che in Brasile, suo paese di origine , ha la consapevolezza di un dolore dell’anima che è situato nel corpo e di un dolore del corpo che ferisce l’anima. È una coscienza del dolore presente in ogni tempo e in ogni spazio , dalle creature che pur vivono in condizioni diverse. È il dolore di una separazione, di un’assenza, di un vagabondare stanco e ferita , senza quiete, senza approdi. La vita ci lascia ai margini delle risposte, sia che si avanzi o si retroceda a un primordi amniotico , ci resta il corpo la materia, bagaglio che non ha consapevolezze e non ne cerca. La poetessa allora ordisce la materia, ne trae un composito arazzo, che si fissa non più come interrogativo senza risposta ma come essenza creaturale; un distillato della vita che è così , che , in quanto tale , ci deve bastare anche se il pungolo dell’irresoluto la scarnifica . "Come uno schiaffo in faccia, come un dolore profondo nelle viscere, come un battito cardiaco più pressante e, a volte , come una carezza e una musica. Vi sono in questo universo di dolori, di incomprensioni, silenzi, crudeltà, momenti di dolcezza che si manifestano con naturalezza, non in funzione di placebo, ma come attestazione di verità: la vita è anche questo." si è detto della sua poesia. La vita dunque, incontro e scontro, evento inevitabile e evento imprescindibile, male assolutamente necessario che della sua necessità fa la sua ragion d’essere. Traspare allora una velatura spirituale, una richiamo, una richiesta sottotraccia anche in assenza di Dio, di fede, di speranza in un altrove che sia pacificato. La estenuante e incessante ricerca di senso sottrae questa poesia alla materia di cui è intrisa la transitorietà del suo essere per proiettarla verso un un’oltranza non percepita, ma cercata. La carne quando è sola trascina verso il tempo delle origini per poi rimbalzare nel presente. È una poesia potente e forte che dà voce all’assenza e mescola la vita e la morte, il vuoto e il corpo, dove il dolore guarda il mondo con occhi pietosi e asciutti.
dalla
finestra sentiva il rumore del vento
Le voci poetanti del libro sono molteplici: predomina un io maschile che poi cede a figure diverse, indefinite nel tempo e nel luogo, definite solo dalla condizione. A volte , invece, incontriamo nomi e cognomi :
il
poeta Sandro Penna
Il discorso intorno alla religione che non riesce ad appagare la fame di vera pace e a sedare il dolore è presente in numerose poesie, amare e precise:
da
vent’anni si preparava
Vorrei aggiungere questi altri versi a testimoniare di un pessimismo leopardianamente cosmico, come afferma nella prefazione di Alessio Brandolini.
Non
ce l’ho con chi mi ha convocato alla vita
credo che già in queste poesie si senta la presenza di una coralità di voci che condividono un medesimo destino: la vita. Ma se vita non fosse, allora che succederebbe?.. Non ha risposte la poetessa e ciascuno comunque trova o non trova le sue. Eppure il verso della De Oliveira mai s’ingroppa, mai s’alza a recriminare o a lamentare: si stende sul foglio con una sua lieve armonia, libero da vincoli metrici, di punteggiatura, libero da ogni formalità retorica, quindi pacato, disteso a terra, offerto come si offre la disposizione di un parquet. Eppure questa poesia penetra, s’incunea nella coscienza del lettore, percuote le sue fragilità e le sue certezze, senza far male però. È la magia della parola che sa dire senza ferire e ferire dicendo, che sa denudare la vita e poi rivestirla di luci e di ombre.
Credo che si debba informare che l’opera è vincitrice del Premio Internazionale di poesia "Pietro Alinari" 2009
(Narda
Fattori, "La carne quando è sola", in "VDBD-Viadellebelledonne",
blog letterario collettivo, 24/08/2011,
È difficile parlare del libro La carne quando è sola, di Vera Lúcia de Oliveira (Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2011), anche se i libri di Vera non sono mai stati facili, perché un tratto caratteristico di tutte le sue opere è che non viene fatta alcuna concessione. Nessuna consolazione, nessuna facile scappatoia, nessuna benevola speranza. È una poesia che ti mette al muro, che non dà scampo. Eppure è sempre presente in ogni sua creazione da che lo ricordi una tenerezza struggente e ruvida al tempo stesso che ti raspa la gola. Quel temere che la voce si spezzi ancor prima di farsi parola e che rende rauco il suono ancora prima di iniziare a parlare. Il dolore nei suoi diversi aspetti, nelle sue più diverse sfaccettature, è un tema già molto attraversato nella sua poetica precedente, ma in questa ultima raccolta ci inoltriamo ancor più, andiamo oltre là dove sembra esista solo il silenzio, là dove all'apparenza "la carne è sola". Sola perché non possiede più parole per dirsi, perché non ne ha ancora, perché diviene testimonianza visibile del mistero dell'esistenza che non ha bisogno di esplicitarsi, esiste in sé e per sé:
"dalla finestra sentiva il rumore del vento la vita nel ventre pulsava i rami sul vetro come unghie appuntite laceravano la luce convocavano Dio per vedere la carne quando è sola" (p. 23)
Vera sfida i limiti dell'inesplicabile così come fa ogni vero poeta perché sa che questo è il suo compito, un compito amaro, ma necessario. Avevo letto anni fa queste poesie, le avevo apprezzate ma a una sua richiesta di commento le avevo detto che mi sembravano senza speranza, come se le esistenze di cui parlavano, che pur riconoscevo nella loro verità, risultassero alla fine un po' monocordi nella loro assenza di luce. Ora, a distanza di alcuni anni, posso dire che avevo colto solo l'aspetto più superficiale del suo lavoro. Ma cominciamo, per chiarire meglio il contenuto del libro, con i versi scelti per l'introduzione, tratti da una poesia di Antonia Pozzi: "Sorelle, a voi non dispiace/ ch'io segua anche stasera/ la vostra via? (...) solo ascoltando le vostre anime andare -/ solo rubando/ con gli occhi fissi/ l'anima delle cose (...)". Questo ascolto delle anime dunque è la chiave d'accesso per entrare nella poesia di Vera, anime che hanno già parlato in altri libri, primo, tra quelli che mi vengono in mente, Nel cuore della parola. La modalità espressiva è molto simile, ogni poesia racconta un brandello di esistenza, a volte enigmatica, a volte straziante, tenera, innocente, rabbiosa, che Vera sembra cogliere quasi al di là della propria volontà, come se queste presenze l'attraversassero con l'urgenza di trovare il modo di esistere, di fronte a sé stesse, di fronte al mondo, utilizzando la sua bocca, la sua capacità di partorire parole. Parole di carne dunque, che riescono a raccontare la vita, laddove la vita pare presentarsi totalmente denudata, priva di ogni decoro e finzione. E forse proprio per questo motivo queste poesie lancinanti possiedono uno straordinario fascino: il fascino della verità ultima, quella della vecchiaia, che attende la morte o sembra non distinguersi dall'esistenza delle cose se non per il dolore che la pervade incessantemente:
"non aveva vissuto abbastanza? ora basta voleva morire nessuno dovrebbe attendere tanto la morte nessuno dovrebbe contare i minuti fra fitte più fonde che strappano alla vita decente che differenza c'era fra lui e il letto se non che lui sentiva il dolore?" (p. 27)
O quella della nascita che non possiede parole, ma urla indecifrabili:
"alla mamma non posso dire che la luce mi urta da lei ho preso gli occhi da lei ho preso il modo di aprire gli occhi da lei ho preso persino il modo di non stare in silenzio nel muto" (p. 28)
Ecco quindi che il filo delle storie/testimonianze si srotola secondo una coerente geometria che ha nel dolore il centro del labirinto. E così come al centro del labirinto nel mito era posto il Minotauro, un essere talmente mostruoso e pericoloso che perfino suo padre decide, non si sa quanto pietosamente, di nascondere, anche noi troviamo ciò che mai vorremmo vedere, ciò che abbiamo cercato di nascondere, di eludere in mille modi, di addomesticare senza riuscirvi e che nonostante i tutti nostri sforzi continua persistente a ferire, lacerare, offendere, marchiare:
"cosa si sa del dolore? è l'energia del mondo il cardine dell'universo tutto si muove macinando sgretolando la ruggine è il dolore delle cose la polvere è il dolore della terra mi sai dire che cosa si muove senza causare la benché minima lacerazione contrazione ferita il rattoppo il rappezzo pietoso?" (p. 30)
Il dolore non si accetta, si vive, eppure è anche la chiave di volta della creazione, sembra dirci Vera nelle sue poesie sulla poesia, quel lampo accecante, quella che Sandro Penna definiva "grazia fulminante", per cui si vive con l'esatta percezione della mancanza, rendendo la parola espressione della ferita:
"dicevi la poesia è un lampo la vedi ti acceca questo è il bello e il brutto che la vorresti sempre che vorresti quella vita vista non quella che bisogna vivere in attesa" (p. 42)
E forse la bocca stessa, attraverso cui la parola passa, è una ferita aperta e le parole vengono, non letterariamente, scritte col sangue delle vene che batte nel movimento della mano. Realtà che viviamo istante per istante e di cui proprio per questo non siamo consapevoli. E ancora dolore chiama dolore, il dolore subito spesso diviene dolore inferto, trasmesso, attraverso la rabbia, il rancore, l'odio. Ma mai si perde il senso della sostanza, non stiamo parlando di un fastidioso sentimento astratto, ma di un cibo da masticare e rimasticare senza fine, mentre il desiderio si esprime come un'insaziabile fame. Bocca, sangue, stomaco, vene, ecco come il corpo si racconta e come Vera sceglie di farlo parlare, senza dimenticare l'appartenenza. Forse questa "estrema solitudine" in realtà deriva da un responsabile disconoscimento che viviamo dell'origine comune di tutti noi, da un corpo di donna, un corpo per secoli denigrato e vilipeso. Forse ancora dentro di noi rimane intatta la possibilità di sentire, percepire e riconoscere l'esistenza degli altri attraverso un alfabeto sottile, quasi impercettibile, che i poeti a volte riescono a decifrare e a restituirci, intatto e prezioso, come in questo libro.
(Antonella
Giacon, presentazione
del libro "la carne quando è sola" a Umbria Libri 2011, Rocca
Paolina, Perugia, 13/11/2011; http://www.el-ghibli.org/lacarnequandoesola/
"forse in qual forma, in quale/stato che sia, dentro covile o cuna,/è funesto a chi nasce il dí natale". Termina così Leopardi la poesia "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia", affermando inequivocabilmente che la felicità non può essere una prerogativa dell'uomo, ma neppure degli animali. Tutti coloro che nascono non possono che essere infelici, perche la Natura li condanna all'infelicità.
"cosa si sa del dolore? È l'energia del mondo/ il cardine dell'universo tutto si muove macinando sgretolando/ la ruggine è il dolore delle cose la polvere è il dolore della terra/ mi sai dire che cosa si muove senza causare la benché minima/ lacerazione contrazione ferita rattoppo rappezzo pietoso?" sono questi i versi con i quali Vera Lucia de Oliveira esprime la sua concezione del dolore.
Leopardi poneva due campi: la natura e gli esseri vitali, la prima causa dell'infelicità, la seconda condannata alla infelicità. Vera Lucia de Oliveira coinvolge tutti nella medesima condizione. Tutti quanti, esseri animati, inanimati, la natura, hanno in comune la sofferenza. Si tratta di un pessimismo radicale, esasperato che non trova conforto da nessuna parte. Dice in un'altra poesia: "dal dolore sono nato come ogni essere/ ma quello mi è rimasto attaccato/ ho provato a vivere, camminare / un cordone mi teneva stretto/ ed io non ho potuto assaggiare/ l'ebbrezza del distacco".
La voce narrante è maschile proprio per allontanare ogni possibile riferimento di quello che si legge ad elementi biografici della poetessa. La sofferenza, sembra voler affermare, è un fatto che esula dalla singola persona e coinvolge tutto.
In questo contesto di dolore ogni fatto positivo scompare, si dilegua, ogni bellezza si liquefa e viene assorbita dal dolore stesso: "quanto era bello il mare azzurro d'estate il vento/ fra i corridoi il bianco nelle case illuminate dal sole/ poi ho visto le cose sformarsi e mettersi a soffrire/ come se si fossero pentite della loro felicità".
Ogni speranza viene meno anche quella di una vita diversa nell'al di là: "…io qui /mi sono stancato se parto qualcuno/ mi deve pur garantire che non / dovrò ricominciare daccapo".
Temi costanti in questa silloge ove si disanima il dolore da tutte le parti, in ogni possibile pertugio, sono la morte e l'amore. La morte che si accompagna ad ogni cosa ed è simbolo stesso della sofferenza. Ma anche l'amore entra come argomento nei versi di questa raccolta. Là dove l'amore è argomento presente, si sente la nostalgia per qualcosa che avrebbe potuto compensare la condizione esistenziale dell'uomo, avrebbe potuto portare un po' di felicità, ma anche l'amore tradisce quest'essere così "affamato" di felicità, perché al massimo se lo trova dimezzato quando aspirerebbe a trovarselo sempre affianco, unica consolazione per il dolore che lo investe da quando è nato.
La poesia presente in lacarnequandoèsola è di una forza che colpisce, che ti lascia stordito per la violenza e verità con cui si propone. Non fa sconti di alcun tipo, non dà tregua, non ti lusinga, ti tiene sospeso su un filo e dopo tutto capisci che ti rimane solo la poesia e che unica consolazione è quella di rileggere e risentire dentro i versi l'eterna verità che solo la poesia può darti. Si tratta di brevi illuminazioni, quasi epigrammi intensissimi che condensano però una saggezza e sapienza che viene da lontano, da riflessioni costanti e continue.
È possibile cogliere la concezione poetica di Vara Lucia de Oliveira attraverso la poesia dedicata a Sandro Penna. In essa si legge: "annusava ogni cosa guardava/ era capace di vedere quello/ che gli altri non vedevano". Seppure riferiti al poeta perugino questi versi esprimono invece la sua intenzione poetica, cioè "vedere nelle cose quello che gli atri non vedono", perché questo è il compito del poeta e la sua missione sociale e rivelare e comunicare agli altri ciò che ha visto più di loro.
Una particolare attenzione va posta nella organizzazione formale presente in questa raccolta, che mi sembra molto diversa da altre raccolte, perché più intensa, ma anche diversamente organizzate.
Innanzitutto vi è una varietà di forma poetica. Si va dal verso libero a quella che Carmine Abate chiama "proesia", cioè una poesia scritta in forma di prosa, ove manca il verso. Questa modalità rende più libera l'espressione e non costringe la poetessa a stare all'interno di schemi. Ma ciò che colpisce maggiormente è l'uso dello enjambament. Non mi pare che nelle altre raccolte poetiche questa figura retorica fosse così abbondantemente adoperata. È lo stesso tema della raccolta che induce spontaneamente o anche riflessivamente ad usare la frattura del verso per significare con maggiore forza l'impossibile linearità del dolore che è sempre una frattura anche e specialmente fisica oltre che morale e spirituale. Ma anche altre forme poetiche sono presenti in maniera più o meno articolate, così l'anafora, l'allitterazione che quando è bene usata costruisce col suono l'idea portante del verso. Si prenda ad esempio il verso "fra fitte più fonde che strappano". La ripetizione del suono "f" sembra acuire, far penetrare maggiormente il senso della sofferenza (è difficile non pensare che qui ci sia quasi una citazione di Pascoli che in verso dell'Assiolo si esprime con queste parole "fru fru fra le fratte" ).
Un'ultima considerazione. Di tanto in tanto, così come avveniva in Leopardi che nel mentre considerava la Natura la matrigna, poi innalzava versi alla natura di tale bellezza da strappare lacrime, così anche in Vera Lucia de Oliveira alcune poesie riconciliano con la vita che offre tali malinconiche bellezze. Mi riferisco a quelle ove vengono richiamate le rondini che metaforicamente rappresentano forse meglio di altri uccelli l'uomo e la sua esistenza dolorosa perché le rondini volteggiano in alto verso il cielo, lo attraversano, poi vanno alla ricerca di altre primavere e poi ritornano a portare nuove primavere. L'uomo aspira ad una vita elevata, emigra per cercarla, ritorna per riproporsela.
(Raffaele
Taddeo, "lacarnequandoèsola", 26/11/2011, in "El Ghibli", rivista online di letteratura della migrazione, anno 8, n.33, settembre
2011
Ho letto il libro La carne quando è sola (2011, Premio internazionale di poesia "Piero Alinari"), di Vera Lúcia de Oliveira, come se si trattasse di un cerchio pieno, inteso come metafora dell’essere; ossia una figura composta di una linea circolare, un contenitore, il corpo, e dalla porzione in essa contenuta, l’anima. Il corpo, più spesso indicato come "carne" compare nel titolo apparentemente svincolato dal suo contenuto, l’anima. La carne quando è sola sembra richiamare una figura molto sfruttata in campo poetico e letterario, un simbolo universalmente condiviso. Presente già nel V canto del Purgatorio dantesco, in cui compare "la carne nuda [...] la carne sola", essa fa riferimento al momento della morte, all’attimo in cui l’anima si stacca dal corpo lasciando un contenitore vuoto. Tuttavia, la lettura dell’ultima raccolta dell’autrice rende evidente che l’attenzione non è focalizzata sul corpo, tanto meno o non esclusivamente sul momento della morte. Più che altro, qui l’anima sembra staccarsi dal corpo, e la carne restare sola, a voler significare la presa di coscienza della dualità dell’essere umano, della persona, il suo essere quanto di più materiale (in quanto tangibile, caduco e deteriorabile) esista, e il suo essere immateriale, impalpabile. Quando la carne è sola, l’anima immensa e ingombrante si mostra senza impedimenti e nel farlo denuncia il paradosso di dimorare presso un corpo limitato e limitante, di necessitarlo e di avvertirlo al tempo stesso come un peso, come un ostacolo alla propria espansione verso l’infinito. La carne subisce il tempo, è debole, caduca e mortale, sottoposta al logorio perpetuo della vita; l’anima, indissolubilmente legata al corpo, subisce a sua volta il logorio della vita, sperimentando in tal modo il dolore in una lotta perenne, in una corsa spietata nel tentativo della propria crescita e affermazione, che si riempie di amarezza. Il libro ripresenta, a mio avviso, la stessa struttura circolare nella profonda riflessione sulla vita. La vita, l’essere al mondo, viene percorsa nelle sue varie tappe, le diverse fasi o età dell’uomo. È notevole come per ogni fase sia adottato un diverso sguardo, inteso non come il guardare le cose da prospettive diverse, bensì come il guardare le cose con occhi diversi, come se a narrare fossero persone distinte, con esperienze dissimili, di differente sesso o età. Dalla riflessione sulla vita, seguendo quindi il suo percorso circolare, si giunge alla morte. Proprio il fatto che lo sguardo adottato è di volta in volta diverso, si può giungere a considerazioni opposte sulla morte ma non necessariamente contrastanti. Essa, infatti, può essere letta in un’accezione negativa, se l’ignoto che porta con sé si presenta come un perpetuarsi del dolore, della sofferenza, ovvero in un’accezione positiva se si pone come rinascita o nutrimento per la vita, tanto da meritare un proprio inno. Lo stile del libro è molto
personale, singolare, e particolare la costruzione del verso. C’è una forte
musicalità in termini di consonanze e assonanze e la scelta lessicale presenta
grande cura e attenzione. È interessante notare, ad esempio, l’utilizzo degli
elementi naturali e degli oggetti (che a tratti sembrano prendere vita, creando
figure antropomorfe) e dei colori, i quali sono evocativi e suggestivi e, a
tratti, sembrano direttamente connessi a emozioni e stati d’animo. Antonella
Di Nobile, "L'infinito movimento circolare della vita in 'La carne quando
è sola' di Vera Lúcia de Oliveira", Fili d'Aquilone n.43,
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